L’hanno onorato come martire Julaibeed al-Kabuli, il
miliziano che si è portato nel Janna sessantatré fedeli oranti nella moschea
sciita di Peshawar. La celebrazione accanto alla rivendicazione dell’attentato
è dell’Isis-Khorasan che s’è attribuito la paternità dell’attentato dello
scorso venerdì. Tutto mentre venivano svolti i funerali dei poveri cittadini
colpiti dalla follìa fondamentalista sempre pronta a cercare fra gli sciiti
obiettivi sicuri delle proprie sanguinarie azioni. Altre trentasette persone
restano ospedalizzate e per cinque di loro la situazione è disperata. Un
comunicato della polizia, che si dice sulle tracce degli altri membri della
cellula terrorista, afferma come quel nome sia uno pseudonimo usato dai membri
dell’Isis per proteggere i familiari da indagini poliziesche. Mentre le forze
dell’ordine si dicono certe di poter rintracciare altri componenti della
cellula. Anche perché hanno ricevuto informazioni sulla provenienza afghana
dell’attentatore che si sarebbe unito al gruppo del Khorasan seguendo un
percorso di adesione alla Jihad nei territori di confine. Al di là del singolo
attentato, comunque sanguinosissimo, gli organi di sicurezza pakistani sono in
allarme per la ripresa di operazioni terroristiche sul proprio territorio,
perciò mette sotto osservazione il separatismo dei Beluchi, i gruppi del nord
Waziristan, i temibili Tehreek-i Taliban. La stessa sigla del Khorasan che opera in
territorio afghano avrebbe trovato riparo fra i porosi confini delle Fata e in
quelli settentrionali, dove il flusso di profughi fra Jalalabad e Peshawar
prosegue copioso. Dentro queste trasmigrazioni si sono celati i jihadisi fuggiti
dalle prigioni dopo la conquista talebana di Kabul della scorsa estate. Una
parte di essi è stata catturata, e passata per le armi, dalle truppe
dell’Emirato, altri sono parcheggiati nei campi di accoglienza dei flussi di
gente proveniente dall’Afghanistan.
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