Hai voglia a dire pace e
diplomazia.
Se il mondo bipolare della Guerra Fredda ha avuto il suo stop il 9 novembre
1989 con la caduta del Muro di Berlino, e ancor più con la successiva
dissoluzione dell’Unione Sovietica, i giganti della globalizzazione armata
hanno proseguito la corsa agli armamenti, nucleari e non, fomentando e
inventando conflitti, incrementando il mercato delle armi da vendere a Paesi alleati
con la presunzione d’una generalizzata “sicurezza”. Sicurezza di chi? Non certo
delle popolazioni che si trovano a subìre decisioni prese sulle proprie teste
da un ceto politico in tanti casi eletto, ma eletto per fare guerre? Difficile
trovare fra i milioni di profughi che dall’inizio del Millennio vagano per il
mondo, fuggendo dalle decine degli scenari di guerra avviati e tenuti aperti
anche per anni o decenni, dei sostenitori della guerra. Magari possono essere
stati elettori di quei Capi di Stato responsabili dei conflitti, però la fuga
dai luoghi natii è già sconfessione dei propri leader, dei loro alleati vissuti
come nemici di ritorno, accanto ai nemici contro cui si combatte. Guerra o pace
che sia, gli affaristi delle armi proseguono un proselitismo vantaggiosissimo col
benestare di partiti e parlamenti - gli stessi indignati per la follìa d’un
presidente, d’un regime, d’una potenza mondiale o regionale - che decidono di
perpetuare il mestiere delle armi e il lucroso suo mercato.
Secondo un recente
rapporto Sipri (Stockholm International Peace Reserch Institute) gli Stati Uniti
producono il 54% del materiale bellico circolante nel mondo. La Cina avanza e
s’attesta al 13%, seguono Gran Bretagna 7.1% e Russia 5%, poco sotto la Francia
4.7%, staccata la Germania 1.7%. Ma è recente il richiamo del Bundestag
all’acquisto di armi: ben cento miliardi per rimpolpare arsenali contenuti per oltre
un settantennio quale espiazione dalla carneficina
innescata dal Terzo Reich. L’Italia sta nel restante 15.3% globale, dominato da
Giappone e Israele, ma non nasconde le eccellenze delle sue aziende (Leonardo, Mbda, Beretta) che
contribuiscono a offrire “lavoro” e sollevano il Pil nazionale. Nel chi vende a
chi e per cosa può brillare l’altra faccia dei giganti bellici statunitensi (Lockheed Martin, quella dei famigerati
F35, Boeing che costruisce gli
elicotteri da combattimento Apache in azione dal Vietnam all’Afghanistan, Northrop Grummann coi suoi sistemi di
rilevazione chimica, biologica, radiologica, nucleare ed esplosivi). E’ l’area
delle industrie russe e del loro rapporto privilegiato con partner geopolitici che
non da oggi, e oltre Putin, alimenta questo mercato. Va da aziende come Kalashnikov Koncern fondata ai tempi
dello zar Alessandro I, veterana nei fucili d’assalto e di precisione come il
Mosin-Nagant, alla staliniana Uralvagonzavod
(carri armati del tipo T-72 e T-90, carri cisterna, veicoli militari).
Le sofisticate aziende aeronautiche e
aerospaziali Obʺedinennaâ
aviastroítelʹnaâ korporáciâ (MiG, Tupolev, Sukhoi)
e la più recente Rostec, fondata nel 2007 questa sì da Putin,
costruttrice di elicotteri da combattimento e rifornimento. Il gioiello degli ultimi tempi dell'industria
moscovita MKB Fakel, sorta nel 1953 con lo scopo di creare missili
terra-aria per contrastare eventuali attacchi dai cieli dell'Alleanza
Atlantica, è il missile antiaereo S-400. Arma che ha spopolato nelle commesse cinesi e fra
gli alleati bielorussi, ma pure fra gli amici di Washington (Arabia Saudita) e
membri Nato come la Turchia con scorno del Pentagono. Oppure fra chi si pone a
metà strada: l'India di Modi. E nei conti in tasca al despota russo e ai suoi
amici oligarchi si conteggiano i recenti acquisti armati a suon di miliardi di
dollari: 6.5 è l'investimento dell'India (Mig, elicotteri da combattimento
oltre ai carri T-90), 5 della Cina, ma ci sono anche le meno solventi Algeria
ed Egitto rispettivamente con 4.2 e 3.3 miliardi. Il disastrato Iraq spende
oltre un miliardo di dollari in rifornimenti bellici russi, più del doppio
dell'Iran. E poi Viet-nam, Kazakistan, Siria, Angola. I clienti non mancano in
giro per il mondo sia fra chi gli armamenti li usa, sia per chi li ammassa per
deterrenza o «sicurezza» che spesso significa repressione delle tensioni
interne. Gli indefessi pacifisti nostrani ricordano come col costo d'un F-35 (130
milioni di euro) si potrebbero costruire 387 asili-nido o venti treni per
pendolari. E se proprio qualcosa deve volare s'acquisterebbero cinque Canadair,
che invece quando la terra brucia non per le bombe, lo Stato affitta da aziende
private. Da 8 a 15.000 euro l'ora, secondo l'emergenza.
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