martedì 19 novembre 2019

Afghanistan: Ghani libera tre taliban per il suo posto al sole


Lo scambio di prigionieri: due professori dell’Università americana di Kabul sequestrati tempo addietro dai taliban e condotti probabilmente in Pakistan, in cambio di tre comandanti della rete di Haqqani (Anas Haqqani, Mali Khan, Hafiz Rashid) detenuti nella prigione di Bagram, viene presentato da Ashraf Ghani come un passo utile alla “sicurezza del Paese”. Forse produrrà qualche attentato in meno, ma non è affatto certo. Potrebbe introdurre, e da una porticina di servizio, il presidente afghano nei colloqui fra Stati Uniti e talebani. Ma questo avverrà se l’intera Shura di Quetta, dunque non solo il clan Haqqani, ne accetterà la presenza. Per mesi i turbanti che, sotto la regìa di Khalilzad, hanno trattato a Doha e a Mosca con ambasciatori di Trump e Putin e i capi dei rispettivi Servizi, hanno negato al governo di Kabul presenza e ruolo. Tanto che Ghani s’è attaccato all’unico percorso di riconoscimento per lui possibile: un’ennesima tornata elettorale. Non gli è andata malissimo. Il 28 settembre le elezioni si sono tenute, seppure limitate nella partecipazione (20% di elettori), numero di seggi aperti (2000 reali rispetto ai 5000 dichiarati), classiche accuse di brogli da parte del concorrente e alter ego alla presidenza Abdullah. In piccolo un remake delle presidenziali del 2014, allora concluse con l’investitura di entrambi in cariche distinte: presidente e premier.
Cariche che contano solo nei consessi esterni al Paese, anzi, com’è accaduto per l’apertura politica statunitense ai talebani, non nei contesti più significativi che disegnano un domani che abbandona il modello del passato. La speranza di Ghani, davvero una virtù ultima a morire, di reinserirsi nel patteggiamento sul futuro afghano assume i toni della ricerca della benevolenza dei nemici. Un passo da realismo disperato che presuppone l’accettazione del nuovo assetto istituzionale, atto a riportare un buon pezzo della famiglia talebana in quella Kabul da cui era stata espulsa dall’invasione statunitense. Nonostante la narrazione della stampa mainstream non sono mai stati spazzati via dalle 36 province afghane, lo testimonia la tragedia dell’Enduring Freedom, quindi Isaf, negli ultimi anni Resolute support “missioni di pace” che non hanno sconfitto i talebani, né hanno formato un esercito locale. Hanno solo mantenuto la macchina bellica Nato (che ha comunque gettato al vento l’esistenza di suoi 3.232 militari) con oltre 1000 miliardi di dollari ufficialmente spesi (secondo fonti alternative la cifra raddoppia). Mentre la nazione dell’Hindu Kush diventava un enorme cimitero: 140.000 i morti, secondo le cifre Onu, ovviamente limitate dalla precarietà delle statistiche sul campo. Quest’esercito di cadaveri conta una buona fetta (50.000) di vittime talebane che si presentano come resistenti, 30.000 morti fra i militari afghani e almeno 50.000 vittime civili. Su questa necropoli proseguono i balletti di potere e Ghani cerca di conservare il suo posticino al sole. Un sole grondante di sangue. 

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