giovedì 14 novembre 2019

Pakistan, deobandi in strada


Si attivano anche le piazze pakistane. In questa fase le strade, dove da due settimane il capo dell’Assemblea dei chierici islamici, nonché leader del partito JUI-F, Fazl-ur Rehman sta guidando un sit-in di protesta contro il governo. Così in migliaia gli aderenti al gruppo hanno bloccato la più importante autostrada verso la capitale. Ora il chierico afferma che entra in vigore una successiva fase di cui non è stato esplicitato il tipo di contestazione, l’obiettivo sì: far dimettere il premier Imran Khan. In un discorso pubblico Rehman tramite metafore ha parlato di attacco alle radici del sistema, mentre ora si passerà a sezionaren il tronco. Sic! Il suo gruppo nella protesta sta usando grandi camion articolati per le merci, trovando evidentemente l’appoggio dei trasportatori del settore, ne scaturisce un blocco quasi totale della comunicazione su gomma in varie zone del Paese. Ad esempio risulta paralizzata l’autostrada fra Quetta e Chaman e con essa la direzione verso l’Afghanistan, oltre all’afflusso di generi di consumo principalmente alimentare. Accanto ai lavoratori dei trasporti in cui Jamiat Ulema Islam-Fazl, che ha comunque un limitata rappresentanza parlamentare (15 seggi su 272), sta raccogliendo consensi per il dissenso antigovernativo, il gruppo ispirato al fondamentalismo deobandi ha un buon seguito fra insegnanti e studenti. Poiché quest’ultimi sono studenti coranici, il rapporto con chi si estremizza e abbraccia il Jihad armato non è automatico, ma è possibile. I grandi partiti pakistani, la Lega Musulmana e il Pakistan People Party, pur in contrasto fra loro hanno annuito alla protesta senza parteciparvi. Il fatto che sia colpito il Movimento per la giustizia di Khan gli fa gioco, ma finora restano a guardare.

Rehman accusa il primo ministro d’aver prevalso nelle contestate elezioni del 2018 grazie all’aiuto dell’esercito, da sempre il convitato di pietra della politica nazionale. L’altra eminenza grigia è l’Isi, l’agenzia dell’Intelligence interna. Potrebbero esser queste, in tutti i sensi, le armi dell’ex campione di cricket salito ai vertici della politica “per pacificare la nazione”. Certo la contraddizione risulterebbe palese, ma occorrerà vedere quali saranno i livelli del conflitto. Poiché i manifestanti non hanno accettato gli incontri proposti dal premier, ribadendo la linea delle dimissioni e di nuove elezioni; lui interdice alle proteste l’area istituzionale di Islamabad, dove cinque anni addietro guidò un sit-in durato oltre quattro mesi. Per ora il barricadero Rehman non s’è inimicato l’esercito, in fondo non gli conviene, ne ha definito errate alcune prese di posizione. Le stesse critiche alla situazione economica nazionale non hanno davanti un quadro devastante: l’economia indubbiamente rallenta anche lì, dati del Fondo Monetario indicano una flessione dal 3.3 al 2.4 Pil, poi si sono stagnazione nel lavoro e inflazione a doppia cifra, seppure in quote simili ad altre nazioni (11.4%). Il braccio di ferro è prevalentemente politico, anzi ideologico. Troppo laico, troppo borghese Khan agli occhi dei fautori dell’Islam puro deobandi. Proprio l’ispirazione al padre della nazione pakistana Ali Jinnah, che a sua volta pensava per il Pakistan indipendente un modello simile alla Turchia kemalista, non rientra certo nella visione deobandi, molto conservatrice legata al cosiddetto Taqlid, ogni genere di tradizione tramandata nei secoli. Il sunnismo deobandi è seguìto nel Paese da un quarto della popolazione, oltre cinquanta milioni di pakistani, che magari non manifesteranno tutti per via, ma son molti di più degli aderenti al partito di Rehman, e nel globalismo della politica confessionale un suo possibile incendiario serbatoio.  

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