Mentre nel Kurdistan
iracheno venivano gravemente feriti cinque militari
italiani dall’esplosione di uno Ied, a Baghdad prosegue la mattanza della
gente. Ieri sei vittime per le strade che dall’inizio delle proteste, il 1° ottobre, raggiungono
quota 319 con 15.000 feriti. Immagini d’agenzia al vaglio delle forze
dell’ordine mostrano persone in borghese che sparano ad altezza d’uomo, aspetto
confermato dai sanitari intervenuti a presta soccorso ai feriti: in genere i
colpi d’arma da fuoco mostrano una traiettoria orizzontale, altri fori, quelli
degli spari dei cecchini, provengono dall’alto. Il portavoce militare ha
affermato che si sta indagando sugli sparatori in borghese, parecchi manifestanti
non hanno dubbi: si tratta di elementi infiltrati dalla stessa polizia, visto
che agiscono indisturbati al loro fianco. L’intento è diffondere paura e morte,
di far rientrare la popolazione nella case, di rilanciare l’insignificante
esistenza quotidiana priva non solo di prospettive e lavoro, ma sempre più
anche dei generi di necessità primaria, cibo e acqua compresi. Una caduta
libera prodotta dai fallimenti dei governi a conduzione sciita, con al-Maliki
nel decennio 2005-2014, e ora con la discutibile alleanza fra il chierico
Muqtada al-Sadr e Hadi al-Amiri, capo dell’Organizzazione Badr, un organismo
più paramilitare che politico. Il tutto maldestramente celato sotto la premiership
di Abdul Mahdi, un ex comunista passato negli anni Ottanta all’islamismo
khomeinista.
E’ proprio contro la camaleontica casta politica che ha mutato
millanta colori e bandiere che protesta da quaranta giorni la cittadinanza
irachena, perché essa ha depredato il Paese, giocando sulla divisione etnica e
confessionale e lasciandolo in un comatoso abbandono nonostante le invidiabili
risorse petrolifere. Queste restano appannaggio dei colossi dell’estrazione
mondiale cui gli amministratori statali forniscono contratti e incamerano
capitali senza curarsi di reinvestire in opere pubbliche le risorse ricavate.
E’ la piaga di tante nazioni controllate da dittature mascherate da democrazie
parlamentari, con l’aggiunta per l’Iraq del passaggio dalle manìe di grandezza
di Saddam Hussein, procacciatore di disastrosi conflitti, all’invasione
“liberatoria” statunitense. Dal conseguente caos, che peraltro la Casa Bianca (non
fa differenza se a trazione Repubblicana o Democratica) incentiva da tempo come
sua politica strategica nel Medioriente, ne consegue l’ingresso degli interessi
più vari: l’egemonia iraniana indirizzata a più realtà regionali e contrapposta
a quella saudita, i piani del sedicente
jihadismo prima di Al Qaeda, ora dell’Isis. Quest’ultimo col defunto al-Baghdadi
mirava a un insediamento territoriale, il famoso Califfato del Daesh. Tutta
questa macropolitica, seminatrice di morte e terrore, si mescola alla
conduzione del quotidiano, finora svolto sotto quel disegno o quell’altro
padrino-padrone.
I ragazzi del 2019 questa realtà la conoscono, ma non l’hanno
scelta. Se è per questo non l’hanno scelta e la subiscono anche le famiglie di
provenienza, sciite o sunnite poco importa, per non parlare delle minoranze yezide,
zoroastriane e spesso pure cristiane. Ovviamente fuorigioco, in tali divisioni
confessionali del potere, anche i laici, i kurdi ne sanno qualcosa. Laddove
quest’ultimi si sono ricavati, pur sotto ricatti e compromessi della propria locale
leadership clanista, un territorio autonomo, il resto è una nazione che non c’è.
Tenuta su da una cricca in combutta con l’economia internazionale degli idrocarburi,
così le compagnìe occidentali dei petroli fanno affari e la cricca si spartisce
i guadagni dello Stato redditiere. Di contro alcune decine di milioni di
persone (il censimento del 2015 assegna all’Iraq 37 milioni di abitanti)
arrangiano la vita nella sfacelo dintorno. Eppure nei collegamenti diffusi in
questi giorni drammatici da network come Bbc
e Al Jazeera appaiono scorci
anche gioiosi. La gioventù che protesta e crepa tanto somiglia, non solo nei
tratti somatici, ai ragazzi conosciuti nelle piazze egiziane e tunisine.
Giovani che inseguono il sogno di vivere non di sopravvivere. Già sopravvivono
alle carenze strutturali e alle armi da fuoco con cui i clan potentati cercano di
stroncarne i palpiti di rinnovamento. Loro corrono, s’agitano, discutono e trovano
pure il tempo per suonare un clarinetto. I vecchi e nuovi signori del terrore
omologato per ora non li hanno schiacciati. Ma chi aiuta i ragazzi del Tigri a scalzare
un potere che vuole perpetuarsi?
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