Centosessantotto membri delle Forze di sicurezza e centotrentasei
civili - quest’ultimi giornalisti, attivisti, magistrati - sono le vittime
afghane eccellenti, registrate da statistiche ufficiose nell’anno appena
concluso. A esse s’aggiunge la massa dei senza nome o quasi, i civili di città
e campagna, crepati per ragioni religiose, perché hazara, la comunità più
colpita da kamikaze e autobomba, o semplicemente perché transitavano nel posto
sbagliato nell’infame attimo della deflagrazione o dell’assalto armato. E’
l’Afghanistan che reitera tale cliché da decenni, ma che negli ultimi due anni
registra una variante. Il conflitto palese fra i taliban della Shura guidata da
Akhundzada e i ribelli del Khorasan che hanno assunto il marchio dello Stato
Islamico. L’incessante sequela di attentati contrapposti - e rivendicati - che
s’era registrato nel 2018 in tante province per lo sciagurato primato
dell’agguato mortale, è stato sostituito dallo scorso autunno da azioni anonime.
Sangue e morte senza sigla e senza scopo, se non quelli di seminare terrore e orrore.
Ovviamente è una tattica, che lascia spazio a ipotesi e interpretazioni. Alle
imboscate seguono le congetture sui possibili esecutori da parte degli addetti
alla sicurezza, un ossimoro nel Paese più insicuro del globo. Quindi le
valutazioni di analisti, quest’ultime più orientate ma egualmente teoriche.
A ogni strage di gruppo, a ogni esecuzione mirata si cerca di
dare un nome, d’individuare la matrice dei killer. Da circa un mese c’è
un’ulteriore presenza che, comunque, potrebbe non figurare come terzo incomodo.
Quella d’un ramo della Rete di Haqqani, gruppo talebano dissidente sin
dall’epoca del mullah Omar, con a capo Jalaluddin. Solo dopo la sua scomparsa
avvenuta nel 2018 i taliban di Haqqani, sotto l’impulso del figlio Sirajuddin,
s’erano riavvicinati alla Shura ortodossa di Quetta. Con l’ennesimo attentato
nei primi di dicembre, i Servizi di Kabul hanno messo le mani su un nucleo di
fuoco, denominato Obaida Karwan, forte
di oltre 250 aderenti. E’ stato arrestato anche il leader, tal Mutiaullah, e secondo
il vicepresidente afghano Saleh che d’Intelligence s’è occupato per anni, quest’unità
guerrigliera sta collaborando coi restanti jihadisti del Khorasan nel
condizionare il Paese, conducendolo verso il caos. Nei mesi scorsi, quando
Saleh in persona fu preso di mira da un’autobomba uscendone miracolosamente
illeso, probabilmente per puro caso non per il filtro dei suoi 007, le
supposizioni del vicepresidente sulla recrudescenza degli agguati mortali
indicavano un unico responsabile: i talebani della trattativa. Sarebbero loro i
principali artefici della destabilizzazione per far pesare sui tavoli di Doha
il palese ricatto: senza un nostro governo la nazione è ingovernabile.
Al tempo stesso il ritornello dei turbanti, ripetuto
a ogni colpo inferto alla cieca, resta il medesimo: “noi combattiamo militari e polizia non impiegati statali, addetti della
società civile, gente comune”. Credergli non è scontato. Gli studenti coranici
sentono avvicinarsi il profumo del potere, anche per il lasciapassare ottenuto
dagli statunitensi in ritiro da una certa presenza sul territorio, e
interpretano vari ruoli, da quello di pacificatori e stabilizzatori, a quello
semicelato d’istigatori allo squasso esistenziale. Come e più di loro, gli ex
sodali del Khorasan e i fratelli-coltelli di Haqqani diventano i guastatori
assoluti che possono ricavare spazi dalla degenerazione dello scontro in
conflitto aperto, come fu la guerra civile del periodo 1992-96. E prim’ancora
il decennio di guerriglia antisovietica vissuto fra banditismo e rapimenti. Accanto
al sostegno, più o meno minuto, che quest’ultimi possono ricevere da clan
malavitosi, trafficanti d’oppio, contrabbandieri d’ogni sorta in combutta con
militari e amministratori corrotti, resta l’ombra pesante e inquietante delle
potenze regionali sempre impegnate a sgretolare l’Afghanistan per trarne
vantaggi. I vicini d’Oriente di stanza a Islamabad, quelli d’Occidente allocati
a Teheran, e gli invisibili che contano come la dinastia Saud. La quale, al di
là della proclamata modernizzazione, ha occhio benevolo e cuore prossimo al
jihadismo mondiale. Da Al Qaeda sino al Daesh e oltre.
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