I dieci giorni di fiamme e fuoco continuo che hanno investito
Kabul con attentati, agguati, ventitre vittime e una settantina di feriti seminati
in varie zone della capitale - usando Ied
piazzati sotto le vetture bindate (come per il vice governatore Mohibi, morto assieme al suo segretario)
e autobomba sistemate lungo il percorso di chi si voleva colpire - sono
l’incofutabile realtà che nulla sta cambiando sotto il cielo afghano. L’agitata
repressione che nell’ultima settimana ha condotto reparti speciali dell’esercito
in 4000 abitazioni, di notte e di giorno, arrestando i sospetti su indicazioni
dell’Intelligence locale, difficilmente riesce a mettere le mani sui
responsabili delle azioni criminali. E’ una repressione di facciata, ritenuta indispensabile
dal presidente Ghani e dal vice Saleh, mentre la gente sa e ribadisce che si
tratta d’una messa in scena, incapace di perseguire i reali attentatori, i
quali, da tempo, s’annidano anche fra le file di militari e polizia. Di fatto
la stessa capitale, teoricamente l’ultimo baluardo difeso dai politici afghani
filo occidentali, abbandonati al proprio dai colloquianti di Doha, è tornata al
centro d’una competizione già vista. Quella fra talebani e Stato Islamico del
Khorasan, un conflitto indiretto a suon di bombe e sangue per stabilire
supremazia su territori e popolo.
L’amministrazione Trump, che per quasi due anni ha cavalcato la
trattativa coi talebani, fra venti giorni dovrà cedere il comando. Ma gli Stati
Uniti del presidente entrante appaiono come un attore tutt’altro che pimpante e
in buona salute nella partita che dovrà proseguire. Se sarà ancora Khalilzad il
maestro di cerimonie d’un tavolo impantanato lo vedremo a breve. Sicuramente
non ci sarà più Pompeo, colui nel giorno seguente alla fatidica firma del 29
febbraio coi turbanti, aveva dichiarato ai media americani il “pieno accordo”
su vari punti. I taliban intascavano: il riconoscimento politico, un rilascio
di prigionieri, scadenze per il ritiro delle truppe Nato. Dovevano offrire in
cambio il diniego a qualsiasi accoglienza per Al Qaeda, arnese combattente
tuttora presente nel panorama jihadista, su cui gli studenti coranici hanno
promesso lontananza e non assistenza, senza peraltro offrire riscontri. Del
resto solo satelliti e droni possono verificare se in tante province gestite
dai taliban possano esserci basi del nemico qaedista. Invece, ben altra e
inquietante presenza s’aggira nelle valli e nei centri urbani dell’Afghanistan.
Quella dissidenza talebana sfuggita allo stesso Akhundzada e alla Shura di
Quetta, i khorasanisti dell’Isis locale. A questo punto, come constatato in più
occasioni, il ‘gioco dell’oca afghano’ riparte dall’irrisolto della guerra
strisciante e della violenza.
Convitati di pietra più duraturi delle statue del Budda di Bamiyan,
distrutte dai primi rozzi talebani. Che oggi, magari, non commetterebbero più simili
errori, per non apparire truci. Infatti affermano di voler pianificare un
proprio Emirato aperto all’istruzione per le stesse bambine e ragazze che nel
loro primo governo non godevano di tale privilegio. Con quale controllo su
scuole e madrase non viene rivelato, ma l’intento che li impegna da mesi è:
pensare alla transizione governativa, visto che per la presa del potere non
pare praticabile una soluzione militare. Tranne poi non abbandonare la via
dell’eliminazione di politici e militari afghani dell’attuale governo. Eppure i
diplomatici guidati in Qatar da Barader sono stati espliciti: nessun
riconoscimento al sistema corrotto dei fantocci che hanno cogestito il governo
con gli occupanti della Nato. Continuare a sparare sulle divise dell’Afghan
National Army e su chi le veste non è un reato, anzi diventa il mezzo che
accorcia la via per un proprio governo. Joe Biden e Kamala Harris sono avvertiti.
Sta ai nuovi inquilini della Casa Bianca riformulare il piano americano nell’area.
Avallando quanto iniziato dai predecessori (compreso Obama), sdoganando un
governo dei soli turbanti e appoggiandoli, come Washington fece coi mujaheddin
antisovietici, nel contrasto ai jihadisti del Khorasan. Oppure …
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