E’ tarda sera. Mohamed è in casa, quartiere
periferico del Cairo. Sente bussare alla porta, non apre. Gli squilli di
campanello si fanno insistenti, seguiti da colpi sull'uscio. Mohamed tentenna
poi davanti alle minacciose urla dei poliziotti, spalanca la soglia. Gli agenti gli sono addosso, gli rinfacciano una
resistenza per aver ritardato l’apertura e gli intimano di seguirli. Appena
sale su un’auto, non contrassegnata dall’effige poliziesca, viene bendato e a sua
insaputa si ritrova in una sede della National Security. Inizia un
interrogatorio. Partendo dalle sue generalità, che probabilmente gli uomini dei
Servizi già conoscono e che comunque Mohamed ribadisce, si sente dire: “Dimenticale. Ora sei un numero. Il numero
100”. “Da oggi sarai chiamato così.
Ricorda: nessuno sa dove ti trovi, quando ti chiamiamo con questo numero, dovrai
rispondere”. L’interrogatorio
termina qui. Dopo qualche ora Mohamed viene condotto davanti a quello che lui
crede essere un ufficiale, comunque un capo. Gli agenti gli chiedono: “Dove sei?” e lui ingenuamente: “Alla National Security”. Viene
subito colpito alla pancia e alla testa, quindi gli ripetono: “Non esiste una cosa chiamata National
Security”. L’uomo annuisce e cerca di alleggerire la sua posizione
sorridendo e poi ridendo. Un riso che aumenta e diventa isterico, mentre sullo
sfondo una voce recita versi del Corano. Intravvede altri catturati, forse
come lui. Le guardie non gli danno tregua. Lo portano in una stanza trascinandolo
in malo modo, uno l’afferra per i capelli e tira. Mohamed si lamenta, giù
botte. In seguito racconterà agli amici che il trattamento era durato ore -
quattro, sei - non se n’è reso conto. Strappi sulla pelle, specie sul collo.
Forse è svenuto, perché s’è ritrovato in una cella. Lì ha ricevuto del cibo. “Mangia!” gli ordinava chi glielo aveva
portato. Lui obbediva, allungando il riso alla bocca con le mani. Era
inverno e nella cella faceva freddo, Mohamed dormiva in terra, senza nient’altro
che il vestito. Passati alcuni giorni, sentì gridare “Cento!!” e rispose. Venne condotto in un ufficio definito
antiterrorismo. Era pieno di militari, le voci si sovrapponevano. Così iniziò
un nuovo interrogatorio, mirato e più incalzante. Si parlava del lavoro
giornalistico di Mohamed, “Faccio da me,
sono un free lance”, gli agenti insistono: “Chi ti finanzia?” “Nessuno”.
Colpi. Quindi comparvero cavi elettrici e partì una tortura spietata. Mohamed era provato, restò tramortito per qualche giorno in cella, non riesciva a mangiare.
Gradualmente si riprese. Due agenti lo prelevarono nuovamente. Lui temeva per la
vita. Tornò davanti al capo: “Da oggi sei
il numero 80. Non dimenticarlo quando verremo a riprenderti”. Uscì presto dalla stanza che aveva temuto di tortura, una guardia gli porse degli
abiti puliti indicandogli dove poteva fare una doccia. Rassettato Mohamed
venne condotto in un altro ufficio, non gli riconsegnarono il denaro, tre cellulari e
la macchina fotografica che gli erano stati sequestrati nell’abitazione, ma lui sperava solo di allontanarsi da quell'edificio. Ha
raccontato agli amici: “Svicolando da
quel posto ho camminato a lungo senza voltarmi. Vedevo passare le auto, ma non
mi sono fermato, camminavo e basta”. “Sono
stato molto fortunato, perché il trattamento è durato giorni - otto, forse
dieci - il mio calcolo è vago perché non so quanto tempo ho dormito in quella
stanza semioscura”. “Mi chiedo quando
potranno venire a riprendermi. Cercano di uccidere l’anima delle persone in
ogni modo”.
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