A chi si stupisce davanti ai quasi abbracci al tempo del Covid fra
presidenti, il democratico francese Macron e lo spietato egiziano Al Sisi, accolto
in pompa magna all’Eliseo, occorre ricordare quali strade incrocino gli
interessi e gli affari dei due Paesi. Mediterranei, come molti altri sulla
sponda europea, africana e mediorientale, ma più d’altri proiettati in questo
mare e nella prospiciente area. La geoeconomia e geopolitica di Parigi e del
Cairo hanno trovato un “cordiale accordo”
su un piano che lega i due terreni, già normalmente assai intrecciati.
Da qualche anno la Francia è diventata il primo esportatore d’armi dell’Unione
Europea, ed è l’unica potenza continentale in grado di svilupparne autonomamente
ogni tipologia, per combattimenti di terra, mare, aria con missili e anche testate
nucleari. L’Egitto, servendosi degli organi di sicurezza (forze armate,
polizia, servizi segreti), della magistratura, dello stesso Parlamento, che
legifera la sospensione delle libertà personali per chi è sospettato di “trame
contro lo Stato”, sta sperimentando un modello che può essere esportato in
un’area da un decennio percorsa da ribellioni popolari. In più nel ridisegno
della regione, l’uomo d’ordine incarnato dal presidente Al Sisi è stato investito
del ruolo di alleato per Paesi amici del mondo arabo con velleità egemoniche
sul vicino Medio Oriente, qual è l’Arabia Saudita. E di cliente-alleato cui
riversare la “pregiata merce” di cui Parigi è divenuta esportatrice di spicco,
per ricevere in cambio non solo denaro, ma favori geostrategici. Dieci anni fa
le forniture d’armi acquistate
dall’Egitto in terra francese ammontavano a 40 milioni di euro (molto più
copioso era il pacchetto proveniente dagli Stati Uniti).
Dall’avvento di Sisi l’aria e il partenariato mercantile sono mutati.
800 milioni di euro sono stati spesi dal Cairo nel 2014, 1,2 miliardi nel 2015,
nel 2016 1,3 sempre a vantaggio del mercato parigino che coi presidenti
Sarkozy, Hollande e Macron ha fatto passi da gigante. Nel 2019 la cifra diventa
straordinaria: 14 miliardi, spesi fra navi da guerra Mistral,
fregate Fremm, cannoniere Gowind, aerei da combattimento Rafale, missili
aria-aria Mica e missili da crociera Scalp. E poi armi leggere della ditta
Manurhin e veicoli corazzati della Renault Defense per contrastare le
manifestazioni di piazza. Quindi attrezzature di sorveglianza, prodotte da Idemia e Thales, per tenere d’occhio chiunque possa poi essere accusato di
“attentato alla sicurezza nazionale e terrorismo” quali l’ong Iniziativa egiziana per i diritti personali
e giovani come Patrick Zaki. La scalata armata del grande Paese arabo risponde
in parte alle antiche manìe di grandezza della lobby che dal 1952 segna la vita
del suo popolo, facendogli credere di difenderlo e ai nuovi equilibri che si
prospettano, appunto, in un Mediterraneo e Medio Oriente da cui il “gendarme
statunitense” si sta allontanando. Non un abbandono totale, una rimodulazione
delle proprie strategie all’interno del quadro Nato e in collaborazione con
attori locali. Fra costoro, a parte lo storico alleato israeliano, vengono
assegnati ruoli centrali all’Arabia rimodernata dalla leadership di MbS, con
gli annessi emirati del petrolio disponibili a collaborare (Emirati Arabi su
tutti), e all’Egitto del presidente-generale. La Francia ha puntato sull’asse
securitario nella Libia, da lei infuocata dieci anni or sono, con Al Sisi che
poteva aiutare il signore della guerra Haftar.
Ma su quel fronte l’altro competitore agguerrito mediorientale,
Erdoğan, sembra giocare una partita più favorevole, nei cieli, dove sguinzaglia
i micidiali droni Bayraktar, e nel
bacino orientale di cui rivendica diritti di scandaglio anche in partnership
col governo libico a sostegno del progetto nazionalista denominato ‘Mavi vatan’.
L’Egitto iper militarizzato ha dato fondo a quelle risorse che non investe per
migliorare la condizione sociale della sua gente, finita per oltre la metà
sotto la soglia di povertà, per la creazione dell’hub della sicurezza: la base
aereo-navale Berenice, sul Mar Rosso, quasi al confine dell’infido Sudan. Gli è
partner l’Arabia Saudita compagna di addestramenti navali con la supervisione
francese (ecco che i coinvolgimenti riappaiono). Parigi vende navi e arei da
guerra al Cairo e mira a usarlo come cane da guardia sull’altro mare che
interessa lo stesso Paese arabo, dove s’incrociano sia gli affari energetici,
con lo sfruttamento dei giacimenti di gas che riguardano due Stati falliti
(Libia e Libano) su cui la politica estera francese vuole mettere le mani, sia
una presenza prestante, e dunque armata, per quelle nazioni deboli (Grecia,
Cipro) bisognose di protezione dalle ingerenze turche e russe. Poiché Riyadh e
Il Cairo risultano alleati-competitori, perseguendo intenti comuni sulla
sicurezza nelle travagliate zone del Mar Rosso e del Sinai, Parigi carezza,
lusinga e aiuta il soggetto meno solvente, del quale è più semplice acquisire
la disponibilità. E tutto procede in barba a qualsiasi ideale di libertà, di
diritti personali e collettivi ad esempio. Che se dovesse venir sollecitato da
chi su quel terreno osasse alzare la voce, un ipotetico governo italiano, con
cui Sisi gestisce l’affare del metano di Zhor, potrebbe veder sostituire l’azienda
italianissima impegnata nell’estrazione (Eni) con la concorrente Total e… les jeux
sont faits.
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