La vicenda dei treni indiani del coronavirus potrebbe diventare un
romanzo. O uno di quei colossal della produzione di Bollywood. Modalità speciale come quei vagoni definiti
‘dei lavoratori’, ma non dissimile da altre pandemie storiche. Dall’antichissima
“peste di Atene” narrata da Tucidite, frutto d’eccessiva stanzialità dentro le
mura cittadine, alle pandemie migratorie, la “peste nera” giunta in Europa sui
battelli genovesi che commerciavano col Medio Oriente. Fino alla tragica
“spagnola” portata nel vecchio continente dalle truppe statunitensi dirette ai
fronti della Grande guerra. Proprio i trasferimenti umani sono diventati nella
scorsa primavera il maggior diffusore virale nella nazione-continente. Un
passaggio da ovest a est, dalle coste del Mar Arabico a quelle del Golfo del
Bengala. Dall’area industriale del Surat al distretto di Ganjam. Quasi millecinquecento chilometri percorsi in
treno da decine e decine di migliaia di lavoratori rimasti senza occupazione. Meccanici,
autisti, cuochi, inservienti di ditte di pulizia, perfino lucidatori di
diamanti, tutti in fuga da lavori perduti nella metropoli invasa dal Covid-19. Ai
primi di maggio, quando si diffondeva la notizia della sospensione dei
trasporti pubblici, ulteriore stretta governativa dopo chiusure già
ritardatarie, una quantità spaventosa di lavoratori migranti o stagionali s’ammassa
nella vecchia stazione ferroviaria di Surat. Nessuno di controlla, né
organizza. Si accalcano in scompartimenti e corridoi, stipati, attaccati
finanche ai predellini pur di non mollare il trasporto per le zone d’origine.
L’ultimo rifugio dove poter, forse, mangiare. Poiché in quel distretto c’è sottosviluppo,
ma l’attività agricola è presente da millenni, l’eventualità di riciclarsi fra
i campi diventava più d’una speranza. Con quelle disperate speranze ha
viaggiato anche l’infezione, raggiungendo le aree rurali orientali fino a quel
momento libere da Sars-Cov2.
Nel mese seguente dall’arrivo dei treni del rientro, i casi di
malattia sono diventati all’ordine del giorno, hanno raccontato ai giornalisti
che si sono occupati della questione, alcuni sopravvissuti di villaggi del
Ganjam. Né le autorità politiche locali, né quelle centrali hanno adottato
filtri e profilassi, difficili nelle popolosissime metropoli, ma realizzabili
in altri luoghi se si fosse evitata la fuga sfrenata e irrazionale scaturita
dall’assenza di pianificazione. Un corto circuito verificatosi non a marzo, ma
dopo due mesi di chiaro pericolo contagi. Ovviamente i grandi numeri della
società indiana rappresentano un ostacolo non indifferente, però si è pensato
unicamente al crollo economico d’imprese e attività, alla disoccupazione, alla
stessa fame incombente per milioni di persone, mettendo comunque a repentaglio
la salute di altri milioni dislocati in zone diverse. E’ questa l’accusa
rivolta al governo, che invece difende con orgoglio i 4.600 “treni speciali”
che hanno riportato nella terra d’origine oltre sei milioni di lavoratori. Se
non tutti, molti diventati veicolo di trasmissione del virus. E dove i singoli
dicevano: “Pur di morire di fame, muoio al mio paese”, non s’è opposta una
linea di difesa collettiva dal soggettivismo, perché quel genere di morte è
stata diffusa. Nello scontro parlamentare sollevato nelle ultime settimane
dall’opposizione che chiedeva un’inchiesta sulla vicenda dei treni, la
maggioranza parlamentare, appannaggio del Bharatiya
Janata Party, ha risposto bloccando qualsiasi azione. La tendenza è minimizzare. I
dati ufficiali pongono il Paese molto al di sotto delle statistiche di contagio
e morte registrate in altre nazioni, specie in Occidente. Per il coronavirus
l’India di Modi segna: 10 milioni d’infettati e 145.000 morti. Ma occorre
ricordare che per l’80% dei decessi indiani non s’indaga più di tanto, l’unica
distinzione riguarda la morte cruenta o naturale.
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