Una visita virtuale all’Egyptian
Iron and Steel Company, fiore all’occhiello dell’impresa statale del Paese
- che col ministero dei Lavori Pubblici detiene l’83% del capitale, il restante
è diviso fra investitori, banche, azionisti e associazioni - fa brillare
l’annuncio di benvenuto: “Siamo onorati
della visita al nostro sito, speriamo di ottenere la tua fiducia. L’azienda
segue gli standard di qualità internazionali eccetera“. Premesse coriacee,
come la denominazione aziendale, che col materiale edilizio trattato ha fatto
affari all’interno e all’esterno della popolosa nazione araba. Eppure il
business che coinvolge in prima persona la lobby militare, e attualmente i
sodali del clan Sisi impegnatissimi coi progetti faraonici del raddoppio di
Suez e della nuova capitale in costruzione in pieno deserto, sembra non
sostenere più la storica società nata nel 1958. Nei giorni scorsi, incredibile
a dirsi, c’è stato l’annuncio di chiusura e quei verbi ormai si coniugano al passato.
L’avviso d’un portavoce s’è srotolato laconicamente senza ascoltare le
rimostranze sindacali, che lamentano 7.500 licenziamenti, mentre i lavoratori,
ufficiali e precari, sono in subbuglio da oltre un mese.
L’azienda accumulava perdite da due anni, hanno ripetuto in coro dirigenti e governo, che di
fatto si sovrappongono. Nel 2020 registrava un bilancio di circa 52 milioni di
euro, cifra che riduceva del 35% la quota del 2019, mentre un’altra porzione di
ammanchi veniva ammortizzata vendendo terreni inutilizzati. La decisione di liquidare
la struttura di Helwan, a 25 km dal Cairo, nella zona archeologica dell’antica
Melfi, ha prodotto un braccio di ferro fra lavoratori e azionisti finito anche
davanti ai giudici. Per incrementare l’estrazione di minerali ferrosi negli
ultimi tempi era stata coinvolta una compagnìa ucraina, e nel 2018 lo stesso
ministro degli Affari Pubblici, Hisham Tawfik, s’era interessato della
faccenda. Attualmente il ministro sostiene che non tutto il settore è posto in
liquidazione, anzi lui spera di rilanciarlo. In un’intervista su Al Arabiya proclama un piano di ripristino
con cui valuta di conservare le
industrie da poter riconvertire e tagliare quelle definite senza futuro. La ristrutturazione
dell’Egyptian Metallurgical Company (la
Holding che raccoglie 14 filiali del settore metallurgico e minerario, fra cui
la citata Iron and Steel) è costata 9
miliardi di lire egiziane (468 milioni di euro) ed è stata realizzata vendendo
sei milioni di metri quadri di terreno.
Ovviamente c’è chi non riceve garanzie per un domani che è già
oggi, nell’Egyptian Iron and Steel
Company la perdita dell’occupazione è macroscopica: viene conservata solo una
linea estrattiva per 400 lavoratori, i restanti 7.000 vengono tagliati e non
esistono ‘ammortizzatori sociali’. Per loro è prevista una sorta di elemosina -
728 euro per ogni anno di servizio - considerato dai manager un’offerta generosa.
Il sindacato metallurgico l’ha respinta, incolpa di eventuali perdite la
pessima gestione dirigenziale e l’incapacità governativa di sviluppare un
adeguato sfruttamento delle risorse produttive. Insinua l’ipotesi d’una
liquidazione d’un pilastro pubblico nazionale per avallare possibili
riacquisizioni private. Da parte di chi? Per ora sono in corsa quattro aziende,
tutte pubbliche secondo il ministro Tawfik, che ne rivela solo una: El Nasr Mining. Storica impresa
mineraria del Paese, da sessant’anni in prima fila nei trasporti di carbone,
ammoniaca, benzene con un molo ad Alessandria e uno sul Nilo, e per fosfati,
talco e quarzi due porti sul Mar Rosso: Hamrawein e Abu Ghusun. Inseriti fra le
due perle vacanziere del Paese: Hurgada e Marsa Alam.
“Come nel 2018 con la
chiusura della National Cement
Company a causa delle perdite registrate, stiamo procedendo a svecchiare quei settori dell’economia che non riescono a
restare competitivi”
enuncia il dicastero presieduto da Tawfik. Però c’è chi denota la stessa
tattica attuata nell’era Mubarak, quando attività pubbliche, di cui i militari avevano la diretta gestione
o la supervisione, vennero liquidate per poi venir reimmesse sul mercato e acquisite
a prezzi stracciati da personaggi dell’apparato. All’epoca della caduta di
Mubarak si sollevò un caso che lo coinvolgeva, assieme ai propri figli, e al
suo sodale politico e affaristico, quell’Ahmad Shafiq, che nel 2012 era opposto
a Morsi nella corsa alla presidenza della Repubblica. Nello scorso autunno sono
state introdotte modifiche normative per il settore pubblico in base alle quali imprese statali possono appaltare consulenze e
conduzioni private. E ancora: basta che il debito di un’azienda pubblica raggiunga
la metà del capitale societario che è possibile chiuderla. I sindacati parlano
di catastrofe: la metà, e forse più, delle aziende del Paese, sono passibili di
vendita. Naturalmente finiscono in vendita posti di lavoro, perché nella
conduzione privata, la flessibilità e l’assenza di tutele diventano normalità.
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