Seduto in compagnìa di due giovani ai tavoli d’un caffè prospiciente
la stazione del metrò Dar al Salaam, Hossam Al-Arabi viene perquisito in una
giornata particolare: il 25 gennaio 2017. Sono passati sei anni dalla rivolta
di piazza Tahrir, e l’anniversario che qualche attivista ha in animo di
ricordare, è fuori portata per tutti a causa del controllo ossessivo operato
dalle Forze dell’Ordine. In funzione preventiva prima che repressiva. La data è
quella, e per i cairoti, soprattutto d’età e d’aspetto giovanile, diventa
pericoloso anche solo sostare per via. Così Hossam viene avvicinato da una
pattuglia e perquisito. La più accurata osservazione del suo cellulare rivela
alcuni messaggi che il network Arabic for
Human Right Information, da un quadriennio interessato al suo caso,
definisce innocui. Sono sms rivolti ad amici che esprimono critiche pacifiste,
niente a che vedere con le accuse rivoltegli dai procuratori, dopo il fermo
tramutato in arresto: frasi pericolose e dannose alla nazione. Come migliaia di
egiziani Hossam finiva nella vicina stazione di polizia, stessa denominazione
Dar Al-Salaam, che in arabo sta per ‘Casa della pace’, e suonava come una beffa
per Al Arabi, cui seguiva il danno del trattamento ricevuto nella sala definita
il frigorifero, dove peraltro non entrava da solo. Una “rinfrescata” tanto per
aver più chiare le accuse rivoltegli il giorno seguente: appartenenza a gruppi
illegali come la Fratellanza Musulmana, condivisione di notizie false, disturbo
della quiete pubblica e dimostrazione priva di autorizzazione. Tutto ciò per
aver consumato una bevanda in un ahwa.
Gli avvocati che inizialmente s’interessarono al suo
caso facevano notare che in quella giornata non s’erano verificate
manifestazioni né commemorazioni. Niente. Eppure, dopo giorni trascorsi nelle
celle del “commissariato della pace” per Hossam s’aprirono le porte della
famigerata prigione di Tora. Vestiti strappati e capelli rasati come
accoglienza, cella dei nuovi arrivi, in attesa della destinazione nel reparto
detenuti politici, raggiunto dopo una decina di giorni. Quindi inizia il
circuito delle comparizioni davanti ai giudici e del rinvio ai seguenti 45
giorni, un periodo via l’altro… Storie ai più note dallo scorso febbraio, dalla
detenzione di Patrick Zaki, situazioni già presenti, per definizione di legge,
ormai da quattro anni. L’accusa: terrorismo. E il via vai da certi luoghi dove
entrano in scena i ‘battitori’, guardie carcerarie e a volte, gli stessi
informatori che servono il regime, dagli agenti della National Security ai
picchiatori della microcriminalità locale. Hossam ha raccontato ai legali
d’essere sopravvissuto a alcuni tentativi di suicidio con cui cercava di
“uscire” da quel posto. Momenti di disperazione comunque condivisi con altri
prigionieri, vittime d’una maledetta comune sorte, quella scritta per loro dal
regime di Al Sisi. Poi il miraggio del rilascio: l’uscita dalla prigione di Tora e
il ritorno nella stazione di polizia di partenza. L’incubo si ripeteva, con
esso le accuse reiterate e rafforzate: direttamente terrorismo.
Nuove presunte inchieste della procura e fermo forzato, dormendo
a turno in celle di sicurezza sovraffollate, mangiando solo pane, temendo che
qualche interrogatorio venisse svolto da agenti dell’Intelligence. Solitamente
i più duri. Da lì passavano nuovi fermati, talvolta adolescenti di 14-15 anni, tutti
accusati di terrorismo. Condizioni vissute per mesi, passando da una stazione
di polizia all’altra - ognuna è dotata di celle di sicurezza dove poter tenere
rinchiudi se decine persone -. Quindi l’angoscia dell’esecuzione. Una mattina
giunge un agente della National Security, sceglie un gruppo detenuti, fra cui
Hossam, li benda e li obbliga a salire su un furgoncino. Dopo un certo tragitto
il veicolo si ferma e una volta discesi i rapiti si sentono dire “Vi facciamo
fuori”. Quando le canne dei fucili d’un reparto di soldati che sono sul posto
gli si piazzano dietro la schiena, ciascuno pensa che sia giunta l’ora. Chi
crede, prega Allah di prendere le vite senza dolore. E’ una finta esecuzione.
Tutto rientra, anche il gruppo riportato a Dar Al Salaam fra gli scherni dei
poliziotti che ridono della loro paura. Dopo un rilascio giunto chissà per
quale benevolenza celeste, Hossam ha pensato bene di entrare in clandestinità.
Per difendersi più che per combattere. Lo annuncia Gamal Eid, un noto avvocato
dei diritti. Ma nella ‘Casa della pace’ il via vai di arresti prosegue, come
proseguono i soprusi. Nei mesi invernali ricorrono i getti d’acqua gelata che
lasciano i detenuti zuppi, in celle umide, senza materassi né coperte, in balìa
di polmoniti al di là del Covid 19. Le ultime voci parlano di quattordici
arrestati, è lì dal 26 novembre anche il giornalista Mohamed Salah.
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