giovedì 5 maggio 2022

Falchi e colombe nell’Emirato afghano

Un paio di settimane fa il governo talebano ha bloccato l’accesso alla piattaforma TikTok per i possessori di cellulari, che a Kabul e nelle maggiori città afghane non sono così pochi. Anni addietro dati, pur parziali, raccolti attraverso i gestori della telefonìa mobile (due sauditi, uno iraniano, uno statunitense, nessuno afghano) contavano sedici milioni di utenze. Sicuramente sono aumentate, perché quelle latitudini pur carenti di cibo da mesi, non mancano di microtecnologìa portatile che consente i contatti minimi, di fronte all’insicurezza degli incontri in presenza. E non per cause pandemiche… Insomma il ministero della Promozione della Virtù e quello delle Telecomunicazioni ritengono che i giovani non debbano impegnarsi in passatempi dai “contenuti immorali”. Che taluni intrattenimenti della piattaforma in questione, singoli o di gruppo, siano un modo insulso per trascorrere minuti od ore può essere vero, certo vietarli non è sinonimo di larghezza di vedute. Infatti l’andamento della vita pubblica e privata del secondo Emirato Islamico prende sempre più una deriva simile alle tendenze di venticinque anni or sono, un’epoca che gli attuali padroni di Kabul dicevano d’aver archiviato. Le scuole femminili riaperte per il periodo primaverile il 23 marzo e richiuse dopo qualche giorno con l’alibi della mancanza di divise adeguate per le alunne, rappresenta un segnale oscurantista, sempre negato dal portavoce governativo Zabihullah Mujahid. I reparti del nuovo esercito locale, formato dai manipoli di miliziani vestiti ora di tutto punto e ispezionati dal ministro Sirajuddin Haqqani in persona, hanno trovato stoffe per uniformi impeccabili, mentre gli istituti femminili sono chiusi perché “le divise non sono ancora pronte”. In tutto questo “contenimento” anche serie televisive estere vengono oscurate. A detta di osservatori internazionali dell’Onu, l’ago della bilancia dell’attuale potere, oscillante fra una linea moderata e una oltranzista, sta pendendo sempre più verso quest’ultima per iniziativa del mullah investito d’una funzione simile alla Guida Suprema iraniana: Haibatullah Akhundzada. 


L’uomo è leader della famiglia talebana ormai da sei anni, ma solo dalla scorsa estate è investito d’un ruolo mai ricoperto da nessun turbante. Con esso offre spazio alla tendenza più conservatrice sostenuta dal presidente della Corte Suprema Hakim Sharai, dal ministro degli Affari religiosi Mohammed Saqeb e dai fa rigidi operatori del famigerato organismo della virtù. Akhundzada ha cercato di spiazzare i colleghi che maggiormente si sono spesi nella pacificazione con gli statunitensi, su tutti Abdul Baradar, e l’attuale ministro degli Esteri Muttaqi impegnato da mesi in incontri con rappresentanti occidentali e orientali per far fronte alla terribile crisi alimentare interna. Il subdolo affondo di Washington, che ha bloccato i 9.5 miliardi di dollari di fondi afghani nelle banche statunitensi, è stato parzialmente superato per l’intervento dell’Organizzazione della Cooperazione Islamica, fornitrice di derrate alla popolazione. Un merito dei buoni uffici ricercati da Mattaqi anche con confinanti meschini e interessati come il Pakistan. Con taluni soggetti politici presenti in quei territori - nelle aree tribali denominate Fata, nel Waziristan settentrionale dove i taliban locali conducono il proprio Jihad contro Islamabad - ha flirtato per decenni il clan Haqqani. Questo gruppo è l’altra figura detentrice dell’attuale potere afghano, incentrato sugli ex combattenti, per nulla disposto a concessioni politiche verso etnìe diverse da quella pashtun, né a ex amministratori che vorrebbero riproporsi (Karzai, Abdullah) o giovani-simbolo senza radici (Massud junior). La Shura di Quetta, il maggior Consiglio talebano, è da sempre variegata e rissosa, l’attuale contrasto fra un ‘possibilismo riformatore’ e l’ala dura che guarda al passato riproponendolo senza ripensamenti, è in corso col suo enorme bagaglio di spettri e le angoscianti incognite.  

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