domenica 8 settembre 2019

Trump congela l’accordo coi taliban


Irruento e umorale come sa essere, Donald Trump ha bloccato due incontri segreti da tenere a Camp David. Il primo con una delegazione talebana quindi col presidente afghano Ghani. Così il via libera alla sedicente pace atteso a ore, e guarda un po’ a cavallo dell’11 settembre, resta bloccato. Quel che non riuscivano a fermare le centinaia di vittime di attentati che insanguinano il cammino della gente comune, lo ferma il decesso d’un soldato statunitense straziato dall’ultima autobomba del fondamentalismo a Kabul. E’ questo il motivo ufficiale del blocco trumpiano. Sorpreso anche Ghani, tenuto sempre lontano dai tavoli dei colloqui per il diktat imposto dai turbanti che considerano la sua figura un’ingerenza nell’Afghanistan del futuro, mentre la delegazione talib di Doha ha dato notizia d’un prossimo suo vertice che punta ad agire non impulsivamente davanti alla mossa del presidente Usa. I negoziatori della Shura di Quetta forse non sono stupiti affatto, loro hanno continuato a puntare al caos, imponendo attentati su attentati in tante, troppe province. La sequenza degli ultimi giorni è stata impressionante: Takhar, Badakhshan, Balkh, Farah, Herat, Baghlan, Kunduz, Kabul.
Voleva ribadire la propria supremazia verso chiunque: gli americani trattanti e gli alleati delle truppe Nato di cui richiedevano il ritiro, inizialmente integrale poi concordato su cinquemila unità, i miliziani concorrenti del Khorasan, e pure l’esercito locale giudicato incapace praticamente di tutto. Agli Stati Uniti stava bene così perché, oltre a mantenere le basi aeree per controllo e possibili attacchi a obiettivi nemici (che non solo i jihadisti, ma soprattutto potenze regionali e mondiali), potevano proseguire e rilanciare l’azione armata dei reparti della propria Intelligence e delle varie agenzie mercenarie che da anni agiscono su quel terreno. Dovevano ricevere in cambio la promessa talebana di non fornire basi al terrorismo qaedista, una promessa tutta da verificare, ma ad accordo concluso vendibilissima in patria al cospetto dell’elettorato chiamato prossimamente a eleggere il 46° presidente Usa. La pantomima della “pacificazione” sta andando avanti da un anno e, ora che il traguardo era prossimo, giunge il colpo di scena. Nel gioco delle parti questa sospensione può avere lo stesso effetto impresso dai turbanti col loro “dialogo a suon d’autobomba”.
Trump ama sorprendere, quest’atteggiamento è il suo piatto forte in politica estera: l’ha usato con Kim, Rouhani e Zarif, col governo cinese nel tira e molla sui dazi. Ovviamente gli analisti si scatenano per decriptare il suo voltafaccia che fa più male ai taliban perché azzera un invito in un luogo simbolo per la diplomazia americana, divenuto celebre nella politica mondiale. Secondo alcuni commenti il Capo della Casa Bianca avrebbe ceduto al suggerimento di taluni consiglieri che ritengono fortemente squilibrato l’andamento della trattativa, coi turbanti da mesi fermi ad esempio nel rifiutarsi di riconoscere valore alle attuali istituzioni afghane, che sarebbe  un’anticamera per riproporre il loro Emirato. Mentre c’è chi sostiene che Trump sia solo pratico non etico e non si strappa le vesti per Ghani e il parlamento afghano, che se accordo ci dovesse essere dovranno subìre assieme l’intero Paese il ritorno talebano. E alla fine la stoccata del presidente americano sarebbe null’altro che un colpo di teatro al quale i talebani opporrebbero la ferrea logica delle motivazioni ultime. Se la “lunga guerra” non ha un vincitore, ha certamente uno sconfitto: l’invasore. E se quest’ultimo vuol conservare certi interessi in Asia, l’accordo non potrà essere rinviato all’infinito. 

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