lunedì 21 novembre 2022

Iran, la repressione impugna armi da guerra

 

Col trasferimento a Mahabad, area azera dell’Iran abitata da kurdi, di reparti di Pasdaran in assetto da guerra lo scenario interno assume contorni diversi da quelli della normale repressione di proteste, pacifiche o violente. L’iniziativa diventa bellica, e ai professionisti armati magari veterani di battaglie in Siria e Iraq, la comunità locale non potrà opporre azioni collettive autogestite e barricate. Non possono bastare davanti a chi riceve dalle alte sfere, non solo militari bensì politiche e clericali (Raisi e Khamenei), l’ordine di reprimere con determinazione. Se già le forze di polizia della cittadina occidentale da due giorni hanno tirato colpi di carabina sui manifestanti, i reparti speciali accorsi punteranno a stroncare qualsiasi presenza e resistenza per ristabilire l’ordine della Repubblica Islamica. Il sangue può diventare un fiume, superando il numero delle vittime - trecento o seicento - finora registrate. A chi contesta i princìpi dell’Islam khomenista rispondono i fedelissimi del khomeinismo che nei decenni hanno creato un potere pari e superiore a quello clericale. Del resto quest’ultimo è un mondo variegato, con diverse componenti. Quella che lega il partito dei Guardiani della Rivoluzione ai turbanti odierni del potere, l’immarcescibile Guida Suprema e il presidente che viene dalla città santa di Mashhad, è una branca conservatrice, ortodossa ai dogmi del khomeinismo che fanno della supremazia dei giureconsulti (velāyat-e faqīh) e dei simboli come chador e hijab, strumenti irrinunciabili da difendere coi denti. Come polizia morale e vigilanza interna che nega parecchie libertà, non solo quella di eliminare il velo. Questo gruppo di potere difende e tiene ben saldo in mano, attraverso le fondazioni, gran parte della finanza d’un Paese soffocato dagli embarghi occidentali, eppure resistente a questi ultimi. 

 

Ovviamente fra gli ottanta milioni d’iraniani presenti sul territorio c’è sperequazione fra chi gode di piccoli o medi privilegi per l’appartenenza alla cerchia securitaria (polizia), militare (pasdaran e reparti scelti), ideologica e paramilitare (basij), clericale, e poi tecnologica, imprenditoriale, commerciale  legate al potere, e gli altri. In tal senso si può essere più o meno esposti agli anni di magra che corrono da tempo. Poi ci sono le minoranze etniche e religiose, talune corpose: 23% di azeri, altre meno consistenti: 7% di kurdi, 3% di arabi, 2% di beluci, 1% di turkmeni. Fra queste i kurdi, che conservano forti legami culturali e politici, sono sempre stati poco propensi ad accettare pedissequamente gli orientamenti dei regimi. Nelle proteste entrate nel terzo mese i malcontenti sono economici e di pensiero. Anzi, lo sciopero dell’hijab ha rappresentato l’iniziale contestazione di chi toglieva la vita alla giovane Masha, rea d’una modalità di velo piuttosto libertaria, che si vede da tempo senza tragiche reprimende soprattutto nella capitale o in città assai turistiche. Eccesso e nefandezza nell’intervento su Amini, la cenere che cova da anni s’incendia ancora perché su di essa soffia un’enorme massa giovanile che insegue desideri di libertà, senza censure, costrizioni, oppressioni. Tutto noto. Conosciute anche le altre ondate di protesta, repressa con le armi nel 2019, e dieci anni prima con la carcerazione anche di figure di primo piano del clero riformista. Conosciuti i tentativi di destabilizzazione con attentati (l’Isis nel 2017), il Mossad a più riprese con gli omicidi mirati degli scienziati impegnati nelle ricerche del nucleare casalingo. Fra le ipotesi più buie c’è quella d’una società polarizzata e contrapposta fra chi resta abbarbicato a difesa della Rivoluzione del 1979 e chi ne propone una attuale, usando ogni mezzo. Poiché lo spettro d’una guerra civile, oltre a incrementare il panorama di morte, può prolungare l’agonia di chi cerca nuova vita per l’intervento di chi esternamente suona il piffero del conflitto, sempre e comunque.  

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