venerdì 4 novembre 2022

Cop27, Alaa l’ultimo gemito di libertà

 

Libero o morto. E’ la via intrapresa giocoforza da un egiziano ora anche cittadino britannico, Alaa Abd El-Fattah, tornato in galera e dallo scorso aprile in sciopero della fame contro il regime di Al Sisi. Dal 6 novembre - data d’inizio della conferenza internazionale sul clima Cop27 che si svolgerà a Sharm el-Sheikh fino al 18 del mese - l’attivista incarcerato per “diffusione di notizie false” e condannato a cinque anni di reclusione dopo averne già scontati cinque dal 2014 al 2019 per “proteste non autorizzate”, smetterà anche di bere. Così il suo fisico ancora giovanile, Alaa ha 41 anni ma è fiaccato dal carcere duro imposto dai militari del Cairo a lui come a 60.000 prigionieri, potrebbe subìre conseguenze letali. A meno che la politica mondiale  non attuerà verso il grande Paese arabo quell’isolamento dal contesto economico, politico e geostrategico con cui si prova a ricondurre a più miti consigli tendenze estreme di regimi ed esecutivi. La pratica di embarghi e tagli finanziari non produce sempre gli effetti desiderati dalla comunità internazionale, ma quest’ultima spesso usa pesi e misure differenti fra nazioni. E il governo egiziano, che nell’ultimo decennio ha messo in atto un attacco ai diritti umani peggiorando la situazione vissuta sotto il presidenzialismo oppressivo di Mubarak, continua a ricevere la benevolenza dell’Occidente poiché incarna il ruolo di alleato-gendarme nel piccolo Medio Oriente. Ora quindici personalità insignite del premio Nobel hanno lanciato un appello perché capi di Stato e di governo che si recano alla conferenza sul clima pronuncino i nomi dei detenuti egiziani chiedendone la liberazione e invitando i militari del Cairo a voltare pagina, rispettare la dignità umana e la libertà dei propri cittadini. 

 

Per mostrarsi aperto e “democratico” il presidente-golpista Sisi - sostenuto e foraggiato da varie potenze mondiali sin dal suo sanguinario avvìo sancito dal massacro della moschea Rabaa al-Adawiyya, dove i militari passarono per le armi fra i mille e i duemila sostenitori del defenestrato presidente Morsi - ha predisposto un’area destinata agli attivisti per il clima e alla loro possibile contestazione. Una zona cuscinetto lontana dal luogo degli incontri, surreale ed estranea alla nazione com’è di per sé la stessa Sharm el-Sheikh. Un “non luogo” in un deserto che s’affaccia sul Mar Rosso, diventato da mezzo secolo il divertificio dei vacanzieri occidentali, dei magnati russi e dei tycoon e arricchiti locali. Centinaia di resort costruiti senza soluzione di continuità lungo le spiagge, capaci di accogliere un turismo lucroso per gli investimenti esteri e interni (le Forze Armate del Cairo gestiscono un congruo numero di hotel e tour operator), hanno inferto un colpo alla conservazione della fauna ittica e della barriera corallina. Dunque si discute di attacco alla sopravvivenza dell’ambiente in un’area sottoposta a uno stress che il mercantilismo turistico attua secondo i peggiori schemi liberisti. Ma non è l’unico male che Sisi e accoliti celano sotto il tappeto delle apparenze. La rete tecnologica che presiede l’accoglienza di conferenzieri e comunicatori servirà come catena securitaria che dal 19 novembre si rivolgerà contro il libero pensiero dei cittadini. Se Pamuk e colleghi riusciranno a salvare Alaa dal gesto estremo, non è detto che le cose muteranno. Il regime di Sisi che, è bene ricordarlo, ha assassinato Regeni e centinaia di giovani come lui motivati dal desiderio di sapere e fare, da tempo usa la tattica di “bastone e carota”. La falsa tolleranza con cui migliaia di egiziani escono di prigione per poi rientrarvi o restare in sospeso (Alaa, Zaki sono solo i più noti) rappresenta il sistema oppressivo da scardinare. Se il mondo vuole aprire gli occhi davanti a tale scempio può farlo, iniziando da Sharm senza fermarsi.

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