lunedì 3 dicembre 2018

Egitto: la protervia del regime impunito


Definire regime, e regime losco, l’attuale cricca di militari, poliziotti, giudici, mukhabarat e baltagheyah (per chi non lo sapesse gli ultimi due nomi stanno per agenti dell’Intelligence e picchiatori di strada prezzolati) che governa l’Egitto è l’evidente conseguenza dell’intrigo che manifesta l’apparato statale d’una nazione pur gloriosa. In realtà la lobby delle stellette ha dettato la recente storia di quel Paese dai primi anni Cinquanta, ma pur fra la poca luce e le tante ombre non era scesa così in basso come nella gestione instaurata da un uomo dal sorriso mite e dalle trame sporchissime: Abdel Fattah al Sisi. La sua persona, i suoi ministri (principalmente l’intoccabile dell’Interno Ghaffar, quello degli Esteri Shoukry, della Difesa Zaki e prima di lui il fedelissimo Sobhi, della Giustizia Hossam) risultano garantiti contro ogni azione di giustizia, interna ed esterna, per comportamenti criminali compiuti nell’esercizio di funzioni repressive più che politiche. Tutto ciò è assolutamente legale, ratificato per legge dalla scorsa estate, quando venne fatto votare all’addomesticato Parlamento una proposta sottoscritta quasi all’unanimità (solo otto i voti contrari) che rendeva imperseguibili costoro e i propri servitori responsabili delle stragi e del terrore seminati dopo il golpe bianco del 1° luglio 2013.
Quel terrore sigillato dall’eccidio della moschea di Rabaa e ramificatosi con tutte le persecuzioni dell’attivismo politico, dell’informazione giornalistica, della difesa dei diritti sino alla persecuzione perfino di chi fotografa, filma o semplicemente parla bollandolo come “spia”.  Oltre quarantamila egiziani sono sepolti nelle galere vecchie e di nuova realizzazione, fra loro nomi noti e semplici cittadini, della cui sorte i parenti non sanno nulla. In questo clima da “colonna infame” giudici e boia possono rendersi protagonisti d’ogni angheria che conservano ruolo e forcaiolo scopo finale sia quando condannano, sia nelle situazioni in cui la sorte di chi finisce nel loro mirino è segnata da esecuzioni extragiudiziarie, come nel sanguinoso caso di Giulio Regeni. La protervia di questo regime gli fa rispondere ai pubblici ministeri italiani, che la scorsa settimana additavano sette agenti della National Security del Cairo come sospettati del rapimento dello studioso, che “nel regime egiziano non esiste un registro dei sospettati” e pedinare una persona, com’essi facevano con Regeni, “rientra nel proprio lavoro”. La supponenza del ‘sistema al Sisi’ alimentata dalla vile subordinazione dei governi italiani, per nulla fermi nel contestare politicamente l’assassinio del nostro connazionale, potrebbe produrre a breve una diretta difesa dell’omicidio di Stato, per ragioni di sicurezza nazionale. Ai carnefici del mondo non manca mai la faccia.

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