venerdì 14 dicembre 2018

Afghanistan, il caos elettorale abbraccia il caos politico


Sempre, e come sempre, in alto mare la conta dei voti dopo le elezioni afghane. Tranne alcune province, dove peraltro i risultati sono confortanti per alcune figure impegnate a difendere i diritti delle donne come la senatrice Belquis Roshan rieletta a Farah, molte presentano ingorghi e blocchi allo scrutinio. Addirittura in quella di Kabul incombe la proposta, avanzata da un’agenzia politica, di annullare per irregolarità un milione di voti. La Commissione Elettorale Indipendente ha fatto sapere che sorvolerà sulla richiesta che avrebbe dovuto portare a un ritorno alle urne già da due settimane. Al contrario fra qualche giorno la IEC dovrebbe certificare la bontà di seggi e voti nella capitale. Del resto le lamentele avanzate da quest’agenzia risultavano vaghe, non era descritta nei dettagli nessuna fra le accuse di frode, e il presidente della IEC ha tacciato l’iniziativa come disgregante rispetto al ‘volere popolare’. Peraltro la stessa commissione aveva già riscontrato ritardi sul voto parlamentare in dodici province.
Questi ritardi appaiono una minaccia per le elezioni presidenziali previste per il prossimo aprile. E rimandare la consultazione di primavera provocherebbe un gran danno al governo Ghani tuttora impegnato sul doppio terreno di scontro e trattativa coi taliban. Se ci fosse ancora chi nell’ipertrasformismo della geopolitica si stupisse di quello che sembra un doppio gioco, ma non lo è da ambo le parti, può venir tranquillizzato da quanto appura l’ennesima inchiesta del prolifico network di ricercatori afghani che apre un’ulteriore finestra sulle relazioni fra due fronti opposti  che risultano, invece, tolleranti e collaboranti. Tranne ammazzare periodicamente un po’ di civili, la cui sorte è ripetutamente ignorata dagli uni e dagli altri. Se si va indietro nel tempo il comportamento talebano dagli anni dell’occupazione statunitense (2001) e poi Nato (2003) va plasmandosi alle varie situazioni. All’epoca della riorganizzazione sotto il mullah Omar (2003-05) il movimento si proponeva come entità di raccolta e organizzazione dell’insorgenza contro i nuovi occupanti.
Inoltre, con una presenza sul territorio, i turbanti riescono a usare il vizio della corruzione amministrativa come punto di forza a sostegno del proprio programma antigovernativo e di legame con le comunità locali. Dal 2006 viene elaborato una sorta di codice di condotta che discetta su parecchie questioni. La precedente lotta indiscriminata alla scuola si trasforma in disamina della scuola stessa che viene combattuta solo se si distacca dai princìpi islamici, affermati ovviamente secondo un’interpretazione di parte. Dal 2009 i talebani si rapportano al ministero dell’Educazione per elaborare un certo andamento dell’istruzione. All’epoca nel mirino fondamentalista entrano le Organizzazioni non Governative, i cui contatti con la popolazione devono essere autorizzati dalla leadership della Shura. Dal 2014, quando s’è consolidata una presenza stabile del cosiddetto Isis afghano (di fatto talib dissidenti), la cooperazione fra strutture governative e talebani è risultata frequente ed evidente. E non parliamo di altri “servizi” che s’integrano e si sostituiscono. Ecco un aggiornamento fornito dai ricercatori.
Negli ultimi mesi a Ghazni gli studenti islamici hanno raccolto pubblicamente le tasse, a Kunduz inviano bollette elettriche ai clienti e riscuotono gabelle dai trasportatori che passano per Zabul. Nell’Helmand finanziano moschee, a Logar decidono assunzioni o licenziamenti di insegnanti basandosi sui loro curricula. Stiamo parlando di province della nazione afghana, non dei territori delle ben note Fata, governate in tutto e per tutto dai clan talebani.  Questo spiega chiaramente gli assalti armati che mettono in scacco quei capoluoghi di provincia dove i soldati di Kabul si sentono totalmente estranei. E’ bene ricordare che città come Kandahar, sulla carta sotto il controllo degli uomini Ghani, in realtà non lo sono affatto. E non è che il business presente sul territorio resti fuori da un simile contropotere. Nel 2016 quattro compagnìe di telefoni cellulari (due sono statunitensi, una è saudita), che distribuiscono le comunicazioni a venti milioni di afghani sui trenta registrati ufficialmente, hanno pagato una “tassa” per proseguire i propri affari. La minaccia era il danneggiamento delle antenne di ripetizione.
Quest’anno un documento governativo ammetteva che nel territorio dell’Uruzgan l’interesse talebano si focalizzava su salute e sicurezza,  quindi chi pagava loro il tributo poteva accedere a quei servizi. Se si va a una lettura dei numeri forniti dal rapporto annuale del Sigar (Special Inspector General Afghanistan Reconstruction’s) dietro l’affermazione che il 78% delle province afghane è sotto il controllo governativo c’è  da notare che il 66% di quel territorio vede una presenza talebana a vari livelli. Così seppure nella graduatoria delle definizioni si confrontano le aree a pieno controllo dell’una e dell’altra componente, la governativa supera quella talebana, ma la percentuale più alta di territorio risulta quella contesa. Osservando la scheda allegata, nel pur ampio settore verde - scuro quello a controllo governativo, chiaro a influenza governativa - un’ampia fetta di popolazione paga, a vario titolo, un tributo ai talebani che, comunque, in quelle aree riescono a riscuoterlo. Ciò che gli analisti definiscono una ‘presenza ombra’ costituisce uno degli aspetti più inquietanti dell’Afghanistan della sbandierata normalizzazione attraverso i ‘colloqui di pace’.

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