mercoledì 24 marzo 2021

Erdoğan, un nuovo cambio di Costituzione

Al settimo Congresso ordinario del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (Akp) Recep Tayyip Erdoğan, che dovrebbe essere il presidente di tutti i turchi però continua a comportarsi come premier e capo di partito, ha annunciato che è giunta l’ora duna nuova Costituzione. “Quella attuale è un residuo dal colpo di Stato del 1980” ha dichiarato. Se è in parte vero, occorre ricordare come l’attuale Carta ha subìto un ritocco non marginale, comunque ratificato dal referendum popolare dell’aprile 2017, per volere dello stesso Erdoğan che ha investito tutto il suo peso politico per introdurre diciotto emendamenti. La possibilità di emanare decreti con funzione di legge senza il controllo parlamentare, d’introdurre lo Stato d’emergenza, di sciogliere il Parlamento, d’investire e rimuovere ministri senza il voto parlamentare, di nominare sei dei tredici membri del Consiglio dei Giudici, hanno rafforzato a tal punto il presidenzialismo turco che diversi politologi l’hanno definito un autoritarismo legalizzato. Per raggiungere l’obiettivo l’Akp fece il passo d’allearsi col partito dei ‘Lupi grigi’ (Mhp), formazione para fascista che spinge come e più di Erdoğan l’attacco alla rappresentanza kurda nelle amministrazioni locali e centrali, la limitazione delle libertà democratiche, di stampa finanche di espressione e di difesa dei diritti delle donne e delle varie identità sessuali. Si è quindi saldato un fronte reazionario non necessariamente legato al credo islamico, caratterizzato da una visione coercitiva della società e dei costumi. Eppure sulla scrittura d’una nuova Carta costituzionale, che nelle intenzioni del super-presidente dovrà fra due anni  suggellare il centenario della nascita della Repubblica, si spendono parole d’apertura. 

 

Erdoğan afferma: “Quando il lavoro degli esperti avrà raggiunto una conformità di princìpi, allora il testo concreto verrà posto in discussione agli occhi della nazione”. E aggiunge “sarà un testo costituzionale del popolo, non dei golpisti e a tutela d’un regime (sic, ndr)”. Tutto ciò è previsto per il prossimo anno, ma secondo i portavoce dell’Akp l’insieme delle riforme previste, nel settore giudiziario ed economico, copriranno un trentennio fino alla metà del secolo e oltre. Dichiarazioni che si susseguono  fra alti e bassi di annunci, che hanno visto sempre Erdoğan in due settimane promettere un ampiamento dei diritti umani e decretare l’uscita dalla Convenzione di Istanbul, oltre a rimuovere il terzo ministro dell’Economia nello spazio d’un biennio. L’ultimo licenziato, Naci Agbal, cercava di porre freno al galoppo dell’inflazione che mette in ginocchio il potere d’acquisto di diverse fasce popolari anche per generi considerati di prima necessità. Il super-presidente ha la sua ricetta: vuol tranquillizzare i concittadini sostenendo che le recenti fluttuazioni finanziarie non riflettono una crisi dell’economia turca, e invita i risparmiatori che tengono in casa valuta estera e oro a investire in strumenti finanziari. Inoltre insiste sul rimpatrio di capitali (le famose rimesse di quella ch’è tuttora una cospicua presenza di lavoratori turchi all’estero) a sostegno delle finanze statali. E dal palco del partito giunge l’ennesimo richiamo paternalistico a risolvere i conflitti… (ancora puntini di stupore) per fare della Turchia un’isola di pace: “Siamo determinati a incrementare le nostre amicizie e risolvere le ostilità regionali”. Ipse dixit.


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