Al settimo Congresso ordinario del Partito della
Giustizia e dello Sviluppo (Akp) Recep Tayyip Erdoğan, che dovrebbe essere il presidente
di tutti i turchi però continua a comportarsi come premier e capo di partito,
ha annunciato che è giunta l’ora duna nuova Costituzione. “Quella attuale è un residuo dal colpo di Stato del 1980” ha
dichiarato. Se è in parte vero, occorre ricordare come l’attuale Carta ha
subìto un ritocco non marginale, comunque ratificato dal referendum popolare
dell’aprile 2017, per volere dello stesso Erdoğan che ha investito tutto il suo
peso politico per introdurre diciotto emendamenti. La possibilità di emanare
decreti con funzione di legge senza il controllo parlamentare, d’introdurre lo
Stato d’emergenza, di sciogliere il Parlamento, d’investire e rimuovere
ministri senza il voto parlamentare, di nominare sei dei tredici membri del
Consiglio dei Giudici, hanno rafforzato a tal punto il presidenzialismo turco
che diversi politologi l’hanno definito un autoritarismo legalizzato. Per
raggiungere l’obiettivo l’Akp fece il passo d’allearsi col partito dei ‘Lupi
grigi’ (Mhp), formazione para fascista che spinge come e più di Erdoğan
l’attacco alla rappresentanza kurda nelle amministrazioni locali e centrali, la
limitazione delle libertà democratiche, di stampa finanche di espressione e di
difesa dei diritti delle donne e delle varie identità sessuali. Si è quindi
saldato un fronte reazionario non necessariamente legato al credo islamico,
caratterizzato da una visione coercitiva della società e dei costumi. Eppure
sulla scrittura d’una nuova Carta costituzionale, che nelle intenzioni del
super-presidente dovrà fra due anni suggellare
il centenario della nascita della Repubblica, si spendono parole d’apertura.
Erdoğan afferma: “Quando
il lavoro degli esperti avrà
raggiunto una conformità di princìpi, allora il testo concreto verrà posto in
discussione agli occhi della nazione”. E aggiunge “sarà un testo costituzionale del popolo, non dei golpisti e a tutela d’un
regime (sic, ndr)”. Tutto ciò è previsto per il prossimo anno, ma secondo i
portavoce dell’Akp l’insieme delle riforme previste, nel settore giudiziario ed
economico, copriranno un trentennio fino alla metà del secolo e oltre. Dichiarazioni
che si susseguono fra alti e bassi di annunci,
che hanno visto sempre Erdoğan in due settimane promettere un ampiamento dei
diritti umani e decretare l’uscita dalla Convenzione di Istanbul, oltre a
rimuovere il terzo ministro dell’Economia nello spazio d’un biennio. L’ultimo
licenziato, Naci Agbal, cercava di porre freno al galoppo dell’inflazione che
mette in ginocchio il potere d’acquisto di diverse fasce popolari anche per
generi considerati di prima necessità. Il super-presidente ha la sua ricetta:
vuol tranquillizzare i concittadini sostenendo che le recenti fluttuazioni
finanziarie non riflettono una crisi dell’economia turca, e invita i
risparmiatori che tengono in casa valuta estera e oro a investire in strumenti
finanziari. Inoltre insiste sul rimpatrio di capitali (le famose rimesse di
quella ch’è tuttora una cospicua presenza di lavoratori turchi all’estero) a
sostegno delle finanze statali. E dal palco del partito giunge l’ennesimo
richiamo paternalistico a risolvere i conflitti… (ancora puntini di stupore)
per fare della Turchia un’isola di pace: “Siamo
determinati a incrementare le nostre amicizie e risolvere le ostilità regionali”.
Ipse dixit.
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