A
Sulaymaniyah, 120 chilometri a sud-est di Erbil, nella terra
visitata in questi giorni dal Santo Padre che prima d’essere caldea, cattolica, yazita, zoroastriana,
sunnita, sciita è soprattutto maschile, c’è un cimitero. Non raccoglie vite
spezzate dalla recente furia dell’Isis, né quelle di precedenti guerre fra
religioni e nazioni. E’ seminata di lapidi ignote, scorze di pietra senza
neanche un nome, eppure memoria di donne spazzate via in tenera età. Su quelle
pietre non c’è identità perché i maschi di casa se ne vergognano e per i maschi
omicidi quelle persone non esistono. In genere sono altre donne, madri,
sorelle, nonne ad avvolgere in un sudario quel che resta di quindicenni
distrutte dall’ipotetico sposo – vecchio o giovane che fosse – cui erano
promesse e al quale si sono opposte. Ribellandosi al sistema della vendita
familiare attraverso il matrimonio, usanza tribale che prosegue imperitura nel
tempo. Qualsiasi denuncia, allo Stato che non c’è, a divise ufficiali e
ufficiose, ha sempre a che fare con figure maschili che annotano e nulla fanno,
men che meno inseguire e perseguire propri simili autori del misfatto.
Quell’angolo
della memoria racchiude frammenti di lutto e dolore, che le
fedi vagamente condannano e le comunità da esse ispirate non fanno propri
perché non estirpano la fonte di quella miseria. Uno scempio universale,
senz’altro, non racchiuso in quell’angolo di Kurdistan iracheno. E purtroppo
presente nel femminicidio diffuso che il mondo maschile perpetua a Oriente e
Occidente con pari calcolata ferocia e con scarsa rispondenza di giustizia,
visto l’iper garantismo che troppe efferate azioni ricevono da certi sistemi
legali. Pronti a imbavagliare e incarcerare per reati di pensiero e permissivi
verso crimini di genere come lo sono coi criminali di guerra. E’ la stessa
società maschia che spaccia per difesa e sicurezza l’aggressione a inermi
civili, quella che minimizza e scagiona stupratori e sgozzatori di donne e
bambini. Anche gli sgozzatori democratici che non sventolano la bandiera nera,
che vivono a New York e Parigi, che passeggiano fra l’arte di Roma e Vienna. Che
abitano nelle case delle proprie vittime, che le hanno sposate legalmente,
senza forzature, ma a un certo punto decidono di forzarne l’esistenza.
Così
dai “crimini d’onore”, come tuttora li definiscono in un pezzo del Sud del
mondo cui appartiene la regione del Kurdistan, come li definiva anche la legge
nostrana che solamente quarant’anni fa decise di bollare simili nefandezze
quali reati, senza peraltro riuscire a fermare la mano omicida che continua a
muovere “uomini d’onore”. Mica solo “zingari ed extracomunitari” che i fautori
dell’ordine sempre additano a rei. Bensì mariti, fidanzati, compagni, parenti
che spengono sorrisi col machete di casa, la pistola d’ordinanza, la tanichetta
di carburante. Perché quella “cosa nostra” che è la femmina agguantata in una
relazione benedetta da una funzione o anche no, resta oggetto di desiderio,
qualunque sia, pure dettato dalla licenza d’uccidere. Si può uccidere con
estrema leggerezza nella società delle cose e delle relazioni fatue. La
maturità sociale, la democrazia, il relativo benessere dovrebbero contenere
pulsioni, sminuire fobie. Invece incentivano potere e violenza e si perpetua la
smania di possesso, di dominio e
l’onnipotenza omicida maschile. Da noi le vittime avranno magari una lapide, ma
l’obiettivo è stroncare la maledetta stirpe degli assassini.
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