“Un incrollabile piano
per risolvere la questione dei diritti
umani, libertà di espressione e organizzazione” è stato annunciato
ieri dall’uomo che l’opposizione turca e l’intellighenzia interna e
internazionale vedono come il maggiore coercitore della democrazia: il
presidente Recep Tayyip Erdoğan. Il camaleontico numero uno del Paese non è
nuovo a trasformismi e giri di valzer socio-giuridico-politici. E’ fra i
precursori mondiali d’un populismo giocato sul
fronte interno, regionale e globale con indubbie qualità oratorie, fine
intuito, doppismi, azzardi e ciniche risoluzioni. Lanciare questo piano sulla
libertà di pensiero e parola nella nazione che incarcera più giornalisti al
mondo dopo la Cina, suona come una sorta di manipolazione della realtà. Mentre
da due mesi è in atto un’azione repressiva contro gli universitari del Bosforo contestatori
dei metodi imposti dal governo per l’incarico del proprio rettore: è stato scelto
un boiardo aderente al Partito della Giustizia e Sviluppo. Nella metropoli
stambuliota è in corso quest’ulteriore giro di vite, e l’obiettivo colpisce
anche la gente solidale al princìpio di autogoverno dell’accademia Bogazici che finora sceglieva la sua
guida fra i docenti più autorevoli delle proprie facoltà. Il regime erdoğaniano
non è nuovo a simili metodi, e non si tratta di semplice ricambio d’incarichi.
Lo sanno bene alcuni nomi illustri della famiglia Akp (Gül, Davutoğlu, Babacan)
finiti nel tritacarne di radiazioni o allontanamenti voluti dal sultano. Accanto
allo spiccato familismo, che ha illuminato non solo la cronaca rosa di figlio e
genero del presidente, si rinnova la cerchia d’apparato che garantisce
all’Atatürk del centenario la possibilità di avere al fianco e al servizio
esecutori fidatissimi in ogni settore.
Il centenario del 2023 è un traguardo che Erdoğan si pone da almeno un
decennio, quando nel municipio d’Istanbul sua base di lancio per i vertici nazionali, scoppiava la
rivolta di Gezi Park che s’opponeva all’ulteriore cementificazione nella
millenaria città sulla “larga strada
liquida”, come la definì la poetessa rumeno-francese Marthe Bibesco. Nella
meno terrestre e più cosmopolita delle metropoli anatoliche - che proprio
anatolica non è, vista la collocazione in quel che era l’antico Ellesponto -
cresceva l’insostenibile pesantezza del vivere sotto un partito-regime, comunque capace di cavalcare, nel primo
decennio di comando, la via della crescita economica già tracciata dal
liberismo di Ozal (1983-1993). La rivolta contro l’abbattimento degli alberi del
parchetto presso la monumentale piazza Taksim, cuore europeo di Istanbul,
cambiò l’umore politico dell’allora premier. Che “suggerendo” al suo ministro
dell’Interno uno scontro frontale coi manifestanti, incrementava l’esclusione
d’una parte della cittadinanza a favore dei fedelissimi del partito
islamico-conservatore. Seguirono fasi crescenti di scontro rivolto a ogni
comportamento giudicato sconvenientemente ostile dal governo. Obiettivi:
l’opposizione di sinistra, il partito filo kurdo e la stessa popolazione del
sud-est, giornalisti, intellettuali, scrittori. Oltreché gli irregolari,
finanche sulle scelte sessuali.
Fra i media ne pagavano le conseguenze non solo testate
notoriamente d’opposizione come Özgür Gündem
o Çumhuryet, nel 2016 lo stesso
quotidiano para islamista Zaman, reo
di legami col movimento gülenista, fu commissariato e venne messo il bavaglio
alla sua ottima informazione su vicende socio-economiche
(una per tutte la controinformazione sulla strage mineraria di Soma). Gli atti
repressivi proseguono e sono sotto gli occhi di tutti, il direttore di Çumhuryet Dundar è condannato a 27 anni
in contumacia a fine dello scorso dicembre, ma l’istrionico Erdoğan promette
una liberalizzazione del dialogo sui diritti rivolto proprio all’Unione Europea
(sic). Aggiunge sforzi rivolti alle formazioni politiche per migliorare la
partecipazione democratica. Quindi l’istituzione d’una “Commissione penale per
il monitoraggio dei diritti umani” con la partecipazione di organizzazioni
universitarie, della società civile e – udite – associazioni di bar per
monitorare anche le istituzioni penitenziarie. L’iniziativa dell’Action Plan, per la quale è richiesta
trasparenza amministrativa, vuole mettersi in linea coi modelli occidentali e invita giudici e
procuratori a un esercizio delle funzioni che, nell’applicazione di rinnovate leggi,
tutelino la criticità d’espressione e di pensiero, evitando che queste incidano
sul giudizio finale. Promette di cancellare le “pratiche d’emergenza”,
introdotte dopo il tentato golpe del 2016, che tuttora permettono ai poliziotti
di fermare, perquisire, detenere pure fuori dai commissariati, sospettati
d’ogni tipo. E’ accaduto a taluni bogazici
accusati d’oltraggio per aver sollevato le mani sugli scudi degli agenti
antisommossa che li caricavano. Sarà un piano vero o la promozione d’una
promessa? Certamente è una bella propaganda per presente e futuro personale
prim’ancora che nazionale.
Nessun commento:
Posta un commento