Mosca, che nei mesi scorsi aveva già creato un tavolo di
colloqui parallelo, potrebbe sostituire Doha nella ricerca d’una concreta via
di pacificazione della questione afghana. O almeno tentarci. In questo ruolo il
ministro degli Esteri Lavrov è un volpone di lungo corso, peraltro da anni in
servizio permanente effettivo alla corte del potere putiniano. Senza togliere
meriti al lavoro di Khalilzad, il diplomatico statunitense d’origine afghana
che ha diretto finora le trattative nell’Emirato qatarino, quest’ultima
situazione è logorata da un palese blocco. Alla firma bilaterale fra Stati
Uniti e delegazione talebana non è seguita l’applicazione di quanto pattuito: cessazione
degli attacchi dei turbanti contro l’esercito di Kabul e ritiro completo delle
truppe Nato. Certo, il limite ultimo è posto al 1° maggio, ma quel che
maggiormente preoccupa e dimostra l’attuale impotenza del negoziato, è stata la
seconda fase, definita colloqui inter-afghani. Questi sono stati finora diretti
da Abdullah Abdullah, ex vicepresidente afghano, ora rappresentante dell’Alto
Consiglio per la Riconciliazione Nazionale. Ma i veti fra lo staff del mullah
Baradar che non ha mai voluto incontrare il presidente Ghani, e gli uomini di
quest’ultimo come il vicepresidente Saleh che disdegnavano di riconoscere un
futuro politico ai taliban, hanno creato un susseguirsi di sedute infruttuose,
incapaci di decidere quale gruppo politico o coalizione costituirà il domani
governativo nei travagliati territori.
Fra nove giorni a Mosca si dovrebbe partire da qui. E pare
che la diplomazia russa riesca, perlomeno come premessa a mettere uno davanti
all’altro i contendenti riottosi: l’attuale Esecutivo afghano e gli studenti
coranici. La conferma definitiva verrà nelle prossime ore, però il portavoce di
Abdullah ha annunciato a Tolo tv che
dopo le insistenze russe l’Alto Consiglio sta pensando d’intervenire
ufficialmente, riconoscendo agli ospitanti “un’importantissima
funzione nell’odierna fase delle trattative”. Sebbene fonti governative della
capitale afghana ricordino che questo fronte non sarebbe alternativo a quello
di Doha, visto che è concordato con gli Usa, c’è da credere che la regia degli
incontri operati dal Cremlino seguano
logiche diverse da quelle dettate dalla Casa Bianca. Comunque osservatori
americani, come pure cinesi e pakistani, saranno presenti in quella sede. Trapelano
anche note sulla contromossa del Segretario di Stato americano Blinken che “suggerisce”
a Ghani di rilanciare il dialogo con un meeting in Turchia sotto l’egida dell’Onu.
Sul tavolo almeno i punti nodali del blocco delle violenze e del ritiro delle
truppe - un confronto aperto, soprattutto coi pesi massimi che influenzano
l’area: Russia, Cina, Pakistan, Iran, India.
In più Blinken invita i fedeli alleati kabulioti di formulare assieme ai talebani una mappa per
stabilire i princìpi fondamentali d’una rinnovata Costituzione e i preparativi
d’un futuro governo. Facile a dirsi e non a farsi, visti i menzionati presupposti
dei due schieramenti. Al di là dei contenuti della costituenda Costituzione,
che per quanto s’è udito non riuscirebbero ad avvicinare il fondamentalismo di
varie sponde (dunque non solo talebano) alle visioni di ‘democrazia borghese’ presenti fra
alcuni rappresentanti etichettati come società civile, la mossa del neo
Segretario di Stato cerca di riaprire al suo Paese lo spazio geopolitico asiatico
che altra diplomazia (russa, cinese, turca) ha elaborato nel quadriennio
trumpiano. Blinken tira per la giacca Erdoğan, conoscendone interessi, bisogni,
smanie vuol renderlo compare in quest’iniziativa. Difficilmente lo scaltro
presidente turco l’ascolterà. Da oltre un anno fra lui e Putin s’è aperto uno
stato di tregua sempre meno armata. Dopo la maretta in Libia, neppure la guerra
lampo armeno-azera è riuscita a incrinare le relazioni che filano per
spartizioni d’interesse reciproco sugli scenari siriano, libico e del
Mediterraneo orientale, caucasico. Se anche Cina, India, Pakistan accetteranno
di sedersi al costituendo tavolo di Mosca, al quale si dà per scontata la
presenza iraniana, l’amministrazione Biden dovrà piegarsi alle conseguenze dei
ritardi americani, oltreché del suo disastroso ventennio afghano.
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