Ogni
punto cardinale libanese è tornato in fiamme. Il fumo oscura il cielo come in
una riedizione del folle boato portuale dello scorso agosto. Stavolta non è
accidente, incuria, corresponsabilità. Oppure sì, queste ci sono tutte. Poiché
è la stessa politica nazionale che abbandonò stivate per anni 2.750 tonnellate
di nitrato di ammonio negli hangar sul porto, provocando 190 vittime e oltre
seimila feriti, allo stesso modo ha lasciato dissanguare le finanze d’una
cittadinanza che ieri scambiava un dollaro americano con 1.518 lire libanesi.
Così i beirutini del centro e delle periferie sfogano la disperazione per via,
bruciano copertoni d’auto, bloccano il traffico verso nord, sud, est. Ma anche
a Tripoli, Sidone, nella Beqqa c’è lo stesso scoramento. La rabbia non ha pari
ma quei fuochi possono restare fatui, per ora non sembrano trova interlocutori.
La guida del Paese è latitante, come lo sono la coalizione che da destra a
sinistra, tra confessioni maronita, sciita, sunnita, fino ai clan druso non
riescono a rilanciare neppure l’economia della spartizione. Anche perché se le
fonti economiche esterne, talvolta fittizie e spesso foriere d’interessi di
ritorno, non credono più in un modello politico-organizzativo che sembra aver
fatto il suo tempo, tutto si ferma. E tutto s’è bloccato. L’aggiunta dei due
milioni di profughi siriani, e nell’ultimo anno della pandemia, rende ogni cosa
più intricata e contorta. Quel che resta d’una classe dirigente è clandestina
teme ulteriori vampate contro simboli quasi vuoti. I poteri temono siano date
alle fiamme sedi istituzionali, banche come accadde nell’ottobre 2019, hanno
sperato nella calma tornata d’inverno in conseguenza dei primi passi locali della
pandemia. Ma un’economia ridotta alla fame infetta più del Covid-19. Anche
perché i due mali sono connessi, le misure del confinamento, introdotte e
interrotte come in altre luoghi, sviluppano solo disperante disoccupazione e
impotenza. La stessa microeconomia con cui mettere qualcosa nel piatto quotidiano
è tutt’altro che scontata, quasi fosse tornata la guerra civile. Il rifiuto
d’un presente ingrato che azzera l’esistenza per il milione di libanesi poveri
e porta gli stessi ex ceti medi d’ogni confessione verso la povertà, è anche il
diniego d’una guida del Paese confezionata all’esterno, da quella geopolitica accorsa
“in aiuto” dopo il disastro del porto – il presidente francese Macron in testa
a tutti – avendo nella testa progetti neocoloniali verso una nazione che c’è
chi vuole in dissolvimento. Mentre gruppi d’intellettuali e giornalisti locali
che commentano come la gente per strada è un popolo senza partito, che proviene
anche dai partiti ma pone il proprio cuore a un livello differente dal passato,
come certi attivisti di Hezbollah a Ghobeyri, che non hanno più fiducia nelle
promesse d’un tempo e nello stesso Nasrallah.
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