C’è un crimine morale che
oscurerà a futura memoria il satrapo siriano Bashar al-Asad. E non solo per i
quattrocentomila morti, i dodici milioni di sfollati interni ed esteri, cui
hanno contribuito oltre alle milizie fedeli e interessate al suo potere, anche
ribelli locali, jihadisti stranieri introdotti e alimentati dalla Turchia,
miliziani Hezbollah, “consiglieri” iraniani e russi, mercenari di Putin, militari
di Putin ed Erdoğan. Lui, il dottore cui gli adolescenti arrestati nei
sobborghi di Da’ra dagli shabbiha,
onnipresenti fantasmi del regime, avevano augurato la fine nella primavera d’un
decennio fa, ha l’incancellabile colpa d’aver cancellato un popolo. Ha
perpetuato la meticolosa e agguerrita macchina di potere militare, economico, familiare
messa su da chi gli istillava la prassi del cinismo: papà Hafiz, il “leone di
Damasco” (sulla cui operatività si può consultare l’eccellente studio di
Lorenzo Trombetta: Siria, Mondadori,
2014). Così l’oftalmologo - obbligato dal fato e dal clanismo di setta a
subentrare al fratello Basil, il designato alla successione presidenziale
stroncato da un incidente d’auto - s’è reso, anno dopo anno più realista del
sovrano padre. Perdendo per via l’idea di poter riformare qualcosa delle molte
contraddizioni che l’ideologia del partito Baath aveva trasformato in dittatura
personale, Bashar ha chiuso lo sguardo dietro la facciata di occhiali a
specchio e baffetti, ch’è una divisa somatica che conta più delle mimetiche poi
viste in azione durante la “guerra civile”.
Più delle colpe oggi
rivolte dalla Gran Bretagna all’avvenente consorte Asma, tuttora cittadina di
quel Paese e da questo rimproverata per il sostegno alle sciagurate operazioni
contro i civili siriani ordinate dal marito-presidente, la “condanna della
memoria” che dovrebbe spettare ad Asad junior riguarda la pervicace
conservazione del potere davanti alla tragedia del suo popolo. Un dramma che ha
certamente vari attori geopolitici, strutturati nelle citate potenze regionali
e nel nefasto disegno dello Stato Islamico strangolatore anche d’un pezzo
d’Iraq, ma che avrebbe obbligato un politico attento alla sopravvivenza delle
diverse comunità etnico-religiose che lì vivono da secoli, a farsi da parte. Responsabile
qual è, assieme alla famiglia presente e passata delle molteplici piaghe siriane.
Un quadro non dissimile da altri disastri mediorientali: l’Egitto afflitto dal
clan Mubarak, la Tunisia di Ben Ali, l’Iraq di Saddam Hussein, la Libia di
Gheddafi. Storie sicuramente diverse, ma col denominatore comune della peggiore
personalizzazione d’un potere criminale, diventato tossico per una parte della
popolazione. La Storia va così, ogni dittatore ha anche i suoi adulatori
interni che godono di benefici diretti e i sostenitori esterni che ricevono
vantaggi da situazioni, stranianti e strazianti per i deboli abbandonati a se
stessi.
Se qualche despota l’ha
scampata col minimo danno, perdendo il trono non la vita, ad altri è andata
male, finendo anche peggio di quanto meritassero. Invece Asad ha protettori
solidi, coloro che hanno ridotto la Siria in tre, quattro pezzi, utili ai
propri disegni attuali e prossimi che, comunque, garantiscono al dottore di
perpetuare la sua presidenza-fantasma su una nazione stuprata. Un padre che ha disastrato
i suoi figli, un oftalmologo accecato dalla sua orgia di potere e da tempo messo sotto tutela da sprezzanti protettori.
Quanto somiglia a quel generale descritto nelle pagine dello scrittore di Aleppo
Khaled Khalifa nel romanzo Elogio
all’odio (Mondadori, 2011). “… Il
culto del generale crebbe e i suoi sostenitori appesero dappertutto la
fotografia che lo mostrava forte, innamorato della vita, sorridente, mentre
teneva il pugno alzato come potesse diventare il liberatore di Gerusalemme. Non
sembrava certo il contrabbandiere che aveva fatto quello che aveva voluto del
paese insieme con i suoi uomini; non sembrava per niente l’uomo che si era
immancabilmente accaparrato la parte più consistente di ogni traffico, come un
ragazzino viziato al quale nessuno ha il coraggio di dire no. Il generale era
diventato il simbolo di un gruppo di potere che aveva iniziato a far pesare sul
paese i suoi loschi traffici. In seguito, sarebbero venuti allo scoperto i suoi
scandali…”
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