“L’accordo di Doha
rappresenta la logica strada per
ottenere la pace, non rispettarlo o violarlo da parte americana significherà
fare i conti con la “guerra santa” per liberare il Paese”. Questo l’avvertimento
che il portavoce della delegazione talebana, presente da mesi in Qatar, lancia
al presidente statunitense Biden, forse - sostengono i taliban - “esposto a consigli imperfetti e istigazioni
da parte dei circoli guerrafondai”. E’ un’affermazione di parte, che
dovrebbe, però, essere presa seriamente dalla nuova amministrazione di
Washington che invece, per bocca dello stesso presidente, ha anteposto “ragioni tattiche” per un possibile
slittamento della scadenza del ritiro, lanciando nell’intervento pubblico di
ieri un sibillino: “Ci ritireremo, vedremo
quando. Non è mia intenzione rimanere, la questione è come e in quali
circostanze applicheremo un accordo voluto dal presidente Trump”. Da parte
su il Segretario di Stato Blinken sul tema chiosava: “Se lasceremo, lo faremo in modo sicuro e ordinato”. Che i diciotto
e più mesi spesi attorno al tavolo di trattative diretto dal negoziatore
Khalilzad possano non portare a nulla è il rischio con cui si misurano le due delegazioni
che si rinfacciano il mancato rispetto di quanto pattuito: gli americani
ondivaghi sul ritiro, gli studenti coranici non rispettosi del cessate il
fuoco. Ma i primi fanno questioni di lana caprina su chi precedentemente ha
stabilito la data del prossimo maggio, i secondi affermano che i propri
attacchi non colpiscono soldati Nato, bensì le truppe afghane da essi
considerate al servizio d’un governo fantoccio. I talebani hanno promesso di
non offrire rifugio e sostegno a gruppi terroristici come Al Qaeda, ma da tempo
le milizie che praticano attentati afferiscono allo Stato Islamico del Khorasan,
e sono dunque altra cosa. Ciascuna delle parti che intende “pacificare” il
Paese segue un percorso lineare, che però s’è arenato e rischia di bloccarsi,
ancora una volta per il dramma della popolazione che quotidianamente resta
esposta alla violenza che colpisce alla cieca, e che potrebbe addirittura
aumentare se i taliban rilanciassero apertamente una nuova Jihad. Costoro hanno
più volte sottolineato come nei mesi scorsi l’aviazione statunitense,
intervenendo a difesa dell’Afghan
National Army ha anch’essa usato la forza, colpendo villaggi e civili e seminando
morte. Nei colloqui inter-afghani, in cui i turbanti si sono rifiutati
d’incontrare il presidente Ghani al quale non riconoscono alcuna autorità,
hanno ribadito che l’unico strumento per impostare un prossimo governo è l’applicazione
d’una legislazione islamica. Nei quattro incontri svolti nel corrente mese di
marzo il dibattito fra le delegazioni non ha mostrato progressi. E tanto è.
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