In fuga dai militari
egiziani, dal loro regime e dalle loro galere seviziatrici, che aveva
conosciuto. In fuga dagli stessi compagni del proprio gruppo, che pur
condividendo orientamenti marxisti poco l’aiutavano sul tema dei diritti della
‘comunità Lgbtq’. Uno spaccato che nella tradizionalista società egiziana e nel
conservatorismo religioso non riusciva a trovare spazi per le proprie scelte
sessuali. Così Sarah Higazy, alla prima occasione dopo una scarcerazione, aveva
lasciato il suo Paese. Le porte delle galere le si erano fortunatamente aperte
dopo una detenzione pretestuosa, con l’accusa d’aver sventolato un drappo
arcobaleno in occasione di un concerto nel settembre 2017. E conseguentemente additata
per aver difeso e rivendicato quel gesto di libertà. Aveva varcato l’Oceano Sarah,
finendo in Canada, allontanandosi dalla terra che amava, da amici, sodali e
familiari. Si era autoesiliata ma continuava a osservare l’Egitto tramortito
dall’oppressione della lobby militare. Non veniva meno agli interessi per le
questioni sociali, economiche, politiche e contemporaneamente al desiderio d’amore,
ai bisogni delle nuove generazioni che rivendicano anche percorsi diversi dai
conformismi, consolidati ovunque. Gli amici, gli attivisti che l’hanno
conosciuta, apprezzata e ora la piangono, ne raccontano la spontaneità,
l’immediatezza, un bisogno di vita che confligge con le notizie che la danno
suicida. Sì, la nota diffusa dopo il ritrovamento del suo cadavere sostiene che
Sarah si è uccisa. Forse perché non accettava la costrizione in cui lei stessa
e tanti come lei, dentro e fuori dai confini nazionali, sono costretti a
vivere.
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