Il mantra è l’accordo di pace, e ora che a Kabul gli
uomini dei Palazzi si sentono considerati dai taliban non si parla che di
questa, fondamentale, questione. Finirla con mattanze e stragi è un interesse
comune. La stessa popolazione può esserne contenta visto che fra i due fronti
in guerra, è lei a contare la maggioranza delle vittime. Quel che sta
scaturendo dopo l’ultimo ‘cessate il fuoco’, che regge dalla fine del Ramadan,
è un confronto sui ruoli di potere da assumere e, parole a parte, bisognerà
verificare ogni passo. Comunque le due delegazioni si fan forti del sentire
della gente che appare pragmatico: “L’importante
è che finisca tutto: lo spargimento di sangue, le bombe sulle nostre case, le
mogli vedove, i figli orfani” riporta un’agenzia governativa. Vero. Ma
sembra propaganda, anche perché segue un’altra affermazione che sull’onda della
‘linea della pace’ calca la mano sul necessario compromesso che dev’essere applicato
dai due fronti. E nel baratto entrano i diritti, umani e delle donne. Così una
seconda ‘voce del popolo’, riportata dalla stampa afghana, afferma: ”Diritti umani e delle donne sono importanti
per chi vive nella capitale, nelle aree sperdute del Paese chi ha perduto i
figli pensa alla fine delle ostilità e basta”. Dunque chi ha orecchie per
intendere, intenda. Poi viene mostrato come i negoziatori del gruppo di
governo, che appartengono prevalentemente alla sponda di Abdullah, tentino di
convincere i ‘coranici’ della necessità d’introdurre negli accordi proprio
diritti e libertà d’espressione.
I taliban annuiscono. Ormai i loro turbanti risultano più
diplomatici delle feluche. Addirittura concordano in tutto, l’importante è che questi
diritti non confliggano con la legge islamica. Dice uno dei loro portavoce,
Suhail Shaheen: “Nel futuro sistema gli
ulema e gli esperti di diritto islamico discuteranno e formalizzeranno le leggi
così che nessun soggetto (uomo o donna, ndr) sarà deprivato dei propri”. A suo dire l’unica questione non negoziabile,
è la guida islamica del governo, tutto il resto non dev’essere deciso ora. Prende
tempo, lanciando una sorta di chi vivrà vedrà. Nel duetto mister Rahimi,
pontiere e portavoce di Abdullah, risponde sibillino che: “Aggirare richieste radicali con idee radicali, è una prassi dura da
digerire”. Messaggi in codice da decriptare. Quel che il fiuto ci dice è
che, come in altre circostanze, si stia patteggiando per il potere, un’altalena
più o meno violenta che l’area dell’Hindu Kush ha conosciuto dagli anni Sessanta.
E oltre mezzo secolo di storia afghana, accanto agli appetiti esterni di chi
vuole trarre vantaggi da quest’immenso e ingovernabile altopiano polveroso (ora
riconducibili al controllo aereo da parte statunitense e allo sfruttamento del
sottosuolo da parte cinese), ripete un ciclico scontro fra signori della guerra
e fondamentalismi politici interni più o meno ortodossi (talebani e islamisti
del Khorasan). Perciò l’auspicabile spinta della pace - osannata dai dialoganti
opportunisti filoccidentali e miliziani scannatori - rischia di rimanere un
accordo scritto sulla sabbia. Capace di sommergere sotto la polvere
dell’intolleranza quei diritti tanto chiacchierati, ma usati solo come maschere
dai pacificatori dell’ultim’ora.
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