lunedì 8 giugno 2020

Libia, clandestini egiziani vittime del deserto


Mahmoud, Said, Ibrahim, Tamer, Gamal, Mohamed. Venticinque, trentasei, trentatrè, ventisei, ventisette anni. Dal Cairo a Minya. Sono stati uomini e giovani uomini. Hanno vissuto nell’Egitto tornato al travaglio, alla paura, al terrore dopo la parentesi della speranza. Ora sono cadaveri nella polvere del deserto libico. Assieme ad altri centodieci connazionali. Li hanno scoperti operatori della Mezzaluna Rossa di Libia, che continua a operare nonostante la finzione di Stato che ultimamente accredita Al-Sarraj. Gli egiziani erano in fuga dalla sempre più scarsa possibilità di lavoro e sostentamento nel proprio Paese, cercando riparo e aspettative nella rotta libica. Pericolosissima rotta per le condizioni naturali, per le milizie che lì si scontrano, per le bande che praticano sciacallaggio verso i clandestini illusi dalla rotta mediterranea. Sulla vicenda non si hanno notizie certe. La carovana, che procedeva a piedi e aveva varcato da poco il confine, potrebbe essere stata colta da tempeste di sabbia. Di fatto i clandestini, forse abbandonati dai ‘passeur’ sono morti per mancanza d’acqua e viveri. E’ uno dei tanti drammi, alcuni conosciuti e ricordati dai media, altri ignoti o peggio ignorati per opportunità dalla politica che in questi giorni sta definendo il quadro d’un territorio tuttora chiamato Libia. Certo, la precarietà dei mesi scorsi sul reale potere fra il fantoccio occidentalista Sarraj e il piccolo signore della guerra su cui la Russia putiniana puntava le sue carte a tal punto da impiegare nel deserto i propri killer del Wagner Group, è stato superato dall’ennesima ingerenza di un dominus dell’attuale geopolitica mediorientale: Recep Tayyip Erdoğan. Intervenuto sui tavoli diplomatici e nei cieli libici, trasferendo l’appoggio da Haftar a Sarraj e spiazzando un po’ tutti.
Putin ha pensato di far rientrare a casa i mercenari, l’Occcidente s’è visto sollevato da impegnare propri reparti in loco facendo fare all’alleato Atlantico turco. Quest’ultimo, tramite il suo presidente, sta usando una delle mine vaganti della questione libica - appunto i clandestini - per imporre all’Europa proprie richieste riguardo a flussi migratori e campi profughi. Come se non bastasse la già annosa questione siriana. Così, mentre tramonta il piano, valido sino a poco tempo addietro, del fronte di sostegno all’uomo forte Haftar (su cui convergevano Russia, la stessa Turchia, Francia, Egitto, Emirati Arabi Uniti) chi resta stordito da ritiri e cambi di passo è il presidente-golpista egiziano Al Sisi. Dal cui regime, dalla cui miseria per il popolo fuggiva il gruppo trovato cadavere. E l’Italia, che proprio ieri col premier Conte ha dialogato col dittatore egiziano, parlando appunto di Libia, non del dramma dei migranti, bensì della leadership, degli interessi energetici che lì e al Cairo coinvolgono l’Eni, delle commesse di armi (900 milioni di euro lo scorso anno) e ora le fregate di Fincantieri e i caccia di Leonardo che di miliardi ne farebbero addirittura dieci. Quest’Italia la tragedia della migrazione clandestina la conosce perché la vive sulla pelle dei territori. La teme, la esorcizza, ma non la risolve con le ambiguità rivolte non solo alla Bruxelles del rifiuto, che non è esclusivamente Visegrád, ma verso i regimi-canaglia che l’opportunismo geopolitico sostiene. L’Egitto di Sisi è uno di questi. Mentre la Libia è un ibrido a uso e consumo del cinismo dei momenti: ieri Sarkozy, oggi Erdoğan.


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