Mahmoud, Said, Ibrahim, Tamer, Gamal, Mohamed. Venticinque,
trentasei, trentatrè, ventisei, ventisette anni. Dal Cairo a Minya. Sono stati
uomini e giovani uomini. Hanno vissuto nell’Egitto tornato al travaglio, alla
paura, al terrore dopo la parentesi della speranza. Ora sono cadaveri nella
polvere del deserto libico. Assieme ad altri centodieci connazionali. Li hanno
scoperti operatori della Mezzaluna Rossa di Libia, che continua a operare
nonostante la finzione di Stato che ultimamente accredita Al-Sarraj. Gli
egiziani erano in fuga dalla sempre più scarsa possibilità di lavoro e
sostentamento nel proprio Paese, cercando riparo e aspettative nella rotta
libica. Pericolosissima rotta per le condizioni naturali, per le milizie che lì
si scontrano, per le bande che praticano sciacallaggio verso i clandestini illusi
dalla rotta mediterranea. Sulla vicenda non si hanno notizie certe. La carovana,
che procedeva a piedi e aveva varcato da poco il confine, potrebbe essere stata
colta da tempeste di sabbia. Di fatto i clandestini, forse abbandonati dai
‘passeur’ sono morti per mancanza d’acqua e viveri. E’ uno dei tanti drammi,
alcuni conosciuti e ricordati dai media, altri ignoti o peggio ignorati per
opportunità dalla politica che in questi giorni sta definendo il quadro d’un
territorio tuttora chiamato Libia. Certo, la precarietà dei mesi scorsi sul
reale potere fra il fantoccio occidentalista Sarraj e il piccolo signore della
guerra su cui la Russia putiniana puntava le sue carte a tal punto da impiegare
nel deserto i propri killer del Wagner Group, è stato superato dall’ennesima
ingerenza di un dominus dell’attuale geopolitica mediorientale: Recep Tayyip
Erdoğan. Intervenuto sui tavoli diplomatici e nei cieli libici, trasferendo
l’appoggio da Haftar a Sarraj e spiazzando un po’ tutti.
Putin ha pensato di far rientrare a casa i mercenari,
l’Occcidente s’è visto sollevato da impegnare propri reparti in loco facendo
fare all’alleato Atlantico turco. Quest’ultimo, tramite il suo presidente, sta usando
una delle mine vaganti della questione libica - appunto i clandestini - per
imporre all’Europa proprie richieste riguardo a flussi migratori e campi
profughi. Come se non bastasse la già annosa questione siriana. Così, mentre
tramonta il piano, valido sino a poco tempo addietro, del fronte di sostegno
all’uomo forte Haftar (su cui convergevano Russia, la stessa Turchia, Francia,
Egitto, Emirati Arabi Uniti) chi resta stordito da ritiri e cambi di passo è il
presidente-golpista egiziano Al Sisi. Dal cui regime, dalla cui miseria per il popolo
fuggiva il gruppo trovato cadavere. E l’Italia, che proprio ieri col premier
Conte ha dialogato col dittatore egiziano, parlando appunto di Libia, non del
dramma dei migranti, bensì della leadership, degli interessi energetici che lì
e al Cairo coinvolgono l’Eni, delle commesse di armi (900 milioni di euro lo
scorso anno) e ora le fregate di Fincantieri e i caccia di Leonardo che di
miliardi ne farebbero addirittura dieci. Quest’Italia la tragedia della
migrazione clandestina la conosce perché la vive sulla pelle dei territori. La
teme, la esorcizza, ma non la risolve con le ambiguità rivolte non solo alla
Bruxelles del rifiuto, che non è esclusivamente Visegrád, ma verso i regimi-canaglia
che l’opportunismo geopolitico sostiene. L’Egitto di Sisi è uno di questi.
Mentre la Libia è un ibrido a uso e consumo del cinismo dei momenti: ieri Sarkozy,
oggi Erdoğan.
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