La passione europea infiamma
e affligge il cuore turco sin dai singulti finali dell’impero Ottomano, che non
scaturirono dalla Grande Guerra, ma un secolo prima coi sultani riformatori
Mahmud II e Abdülmecid I. “Riformarsi o
morire” era il concetto che i due traducevano nelle leggi cosiddette
benefiche (tanzimat) sostenute da
ceti rampanti: i burocratici e l’élite urbana. Costoro, e consenzienti sultani,
del modello europeo prendevano tutto: la leva obbligatoria, la scuola di
pubblica amministrazione, un sistema educativo con primarie, secondarie,
collegi, licei laici accanto a madrase e scuole cattoliche. E investimenti
tecnici con la creazione di ferrovie e l’utilizzo di nuovi strumenti di
comunicazione come il telegrafo. Ciò nonostante il sultanato non sopravvisse e la
Sublime Porta crollò. Ma la moderna Turchia kemalista conservava tutti i tratti
citati, esaltando quel nazionalismo tanto diffuso in Occidente e, con gli
effetti dell’accordo Sykes-Picot, anche a Levante. Un nazionalismo segnato col
sangue dell’amor patrio (vatan).
Insomma, i turchi del Novecento del leone dei Dardanelli Atatürk, nonostante
quel che credono tanti deputati di Strasburgo, ci somigliano. Ed Erdoğan? Di
lui si può pensare tutto, tranne che non sia un politico con la maiuscola nelle
accezioni migliori d’intuitività e strategia, e nei peccati mortali di cinismo
e autocrazia. Il tira e molla sull’apertura dell’Unione Europea alla Turchia,
con cui il vecchio continente ha intensissimi scambi mercantili e patti militari,
è legato alla limitazione delle libertà individuali e di gruppo in Anatolia.
Alla repressione generalizzata non solo di oppositori, come deputati e
amministratori del partito filo kurdo Hdp, ma di giornalisti, intellettuali,
artisti accusati di attentare alla sicurezza nazionale. Considerati terroristi
da arrestare o eliminare com’è accaduto ad attivisti, avvocati dei diritti,
alla popolazione di centri del sud-est messi a ferro e fuoco dall’esercito di
Ankara. Un Paese guidato da un regime che calpesta i cittadini non può entrare
nell’Unione. Però la Ue ha la memoria corta rispetto a questioni geopolitiche su
cui Erdoğan gioca le sue carte. I tre milioni di profughi siriani che la
coscienza europea non ha tenuto fuori dai suoi confini, pagandone al presidente
turco la gestione, può risultare strumentalizzata quanto si vuole, ma di quelle
anime l’Europa dei diritti non vuol saperne. Per quieto vivere, imbarazzo
sociale, egoismo, xenofobia. Di fatto nell’edificio Louise-Weiss albergano
tutti questi sentimenti con tanto di logo politico. Se il presidente turco è un
cuore di tenebra nell’uso di migrazioni indotte dalle guerre, che peraltro perora
e combatte, noi non siamo cherubini. Tanto si discute dell’invadenza e
dell’incoerenza con cui Erdoğan ha consolidato, in dieci anni d’ingombrante affaccio
internazionale, un potere interno ormai ventennale. Spregiudicato e
doppiogiochista, ma capace come pochi d’inserirsi nelle falle altrui, di
sporcarsi le mani lì dove altri non riescono a sbrogliare situazioni intricate.
Nel recente caso della liberazione, ovviamente pagata, di Silvia Romano, che
vede il governo del Belpaese e la sua Intelligence gloriarsi del buon esito
dell’operazione, fa capolino la reale chiave di volta: i contatti coi rapitori
stabiliti dal Mıt turco. Senza quel contributo il ritorno a casa dell’ostaggio
sarebbe stato problematico o impossibile. Tutto ciò avrà un costo nei luoghi
deputati a quella politica che preme all’uomo che si sente il nuovo padre dei
turchi. Ad esempio, nell’intricatissimo intreccio d’interessi sulle Zone
Economiche Esclusive nel Mediterraneo, che riconverte antiche diatribe sulle aree
di pesca verso il pescaggio di gas dai fondali d’un mare che ogni Paese, a nord
come a sud, ritiene il proprio. Le alleanze e i veti incrociati si susseguono attorno
a norme interpretate a convenienza. Erdoğan, che più dell’Italia dell’Eni o
della Francia griffata Total, pensa e briga in grande e punta a fare del suo
Paese il super hub dell’energia, sfida questi giganti. Per incartarli li
riporta sulla scacchiera libica, lì dove hanno compiuto mosse avventate nel 2011.
Così le due nazioni sostenitrici di Al Serraj si ritrovano al fianco Ankara che,
nella lotta interna a un territorio tornato suddito, sceglie l’uomo di plastica
anziché l’uomo di ferro Haftar. Un calcolo, simile a quello dei governi di
Parigi e Roma. Diversi nella forma, e neanche sempre, non nella sostanza.
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