Giunto quasi all’età della pensione, 65 anni, Mohammed
Mounir, redattore del settimanale egiziano Rose
al-Yusuf e membro del sindacato giornalisti, si ritrova probabilmente in
galera. Di lui non si hanno notizie da un paio di giorni dopo il prelevamento
poliziesco alle tre del mattino dalla sua abitazione. Con l’aria che tira sotto
il regime di Al Sisi la cerchia di amici e colleghi più stretti teme il peggio.
Il periodico è una rivista storica della stampa araba, fu fondato nel 1925 da
un’attrice, Fatma al-Youssef, meglio conosciuta col nome di Rose, nata libanese
e trasferitasi al Cairo. Era figlia di un turco e di una libanese, quest’ultima
morta dopo il parto. Anche il padre sparì dall’orizzonte di Rose quando lei
aveva una decina d’anni: l’uomo emigrò in Brasile, lasciando la bambina a una
famiglia cristiana. Da giovane la Youssef calcò i palcoscenici nelle vesti di
attrice e si distinse per l’impegno sulle tematiche di genere, rompendo le
convenzioni sociali sul diritto di espressione della donna e sul suo ruolo
sociale in relazione alle restrizioni imposte dalle confessioni. Il tema venne
riversato sul giornale fondato dalla Youssef che, sin dalle origini, affrontava
questioni religiose, comportamentali e relative alla sfera sessuale. Per i tempi un vero media d’avanguardia. Dopo
la scomparsa della fondatrice altri importanti firme del giornalismo egiziano
hanno diretto e lavorato al Rose al-Yusuf,
su tutti Mohamed al-Tabii che ha lasciato la propria impronta orientandolo su
temi sociopolitici, prima di andare a fondare il quotidiano Al-Masry. Una delle caratteristiche di
questa stampa era l’uso della vignettistica e delle caricature che si radicò
nella tradizione dell’informazione araba. Negli anni Sessanta il presidente
Nasser aveva nazionalizzato la testata che assunse toni filogovernativi. E li
mantenne in epoca recente, sia durante i tumulti anti Mubarak sia nei mesi del
Consiglio Superiore delle Forze Armate e dell’anno di governo (giugno 2012
giugno 2013) della Fratellanza Musulmana. Recentemente un direttore della
rivista si è dedicato alla ricostruzione del periodo politico e dell’operato
della Brotherhood.
Da parte sua Mounir sembra colpito perché già solidale con
colleghi arrestati e censurati per il lavoro di liberi giornalisti. Due anni fa
s’era occupato dell’arresto di Adil Sabry,
direttore del sito Mars-al Arabia,
chiuso dal regime militare assieme a centinaia di agenzie d’informazioni e blog
in rete. Prima di lui altri cronisti, opinionisti non sottomessi al pensiero
unico di Sisi avevano subìto una sorte simile: arresto o sparizione. Fra questi
Yosri Mustafa della testata Freedom and
Justice, accusata di avere legami con la Fratellanza Musulmana. Il mese
scorso è stata la volta della cronista Lina Attalah dell’indipendente Mada Masr, prelevata da agenti della
Sicurezza Nazionale mentre intervistava la madre del conosciuto attivista Abdel
Fattah. Notissimo è il caso di Mahmoud Hussein, giornalista di Al Jazeera che ha collezionato finora 1270
giorni di detenzione. Per lui accuse ben peggiori: a seguito di alcuni
reportage sull’organizzazione islamista e per interviste ad alcuni attivisti è
accusato d’essere un membro della Fratellanza e incriminato per terrorismo.
Attualmente in Egitto sono reclusi in prigioni di massima sicurezza una
quarantina di giornalisti, di alcuni di loro familiari e amici hanno perso le tracce,
non riuscendo a conoscere l’attuale luogo di detenzione. Nella lista nera sulla
repressione della libertà di stampa il grande Paese arabo occupa la 161^
posizione su 180 nazioni esaminate.
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