‘Boicotta la Cina’, ‘Brucia Xi Jinping’ dicono certe immagini che
vengono da Delhi. Ad animarle non solo i fedelissimi del primo ministro Modi,
che ha lanciato il braccio di ferro col presidente del vicino partito-stato.
Agitano quei cartelli anche i seguaci del partito del Congresso, dunque i
rivali interni di Modi, che in questa crisi di frontiera non possono non
sentirsi innanzitutto indiani. Così il suprematismo del Bjp, che si traduce in
volontà di potenza regionale e nei sogni egemonici del leader indiano, trovano
un consenso interno trasversale. Insomma, grazie ai cinesi, la linea del
premier si rafforza. E’ un aiuto non da poco in un momento in cui pandemia da Covid-19
e pandemia da fame colpiscono tanti strati della popolazione indiana. Mentre
sulla stampa locale circolano foto dell’ineffabile primo ministro - immortalato
un anno fa in una performance internazionale di yoga - e sue attuali dichiarazioni:
‘Lo yoga crea uno scudo protettivo contro
il Coronavirus’, Modi incamera un abbassamento di toni da parte di Pechino
nel conflitto di frontiera. Giunge, infatti, la notizia della liberazione di
dieci militari indiani, fra loro due ufficiali, catturati dai soldati con la
stella rossa durante gli scontri di lunedì notte e martedì. La mossa sembra una
mano tesa su una questione dagli effetti esacerbati, visto il numero delle
vittime.
C’è un velo di mistero nella versione dell’esercito indiano che
ha sostenuto come nessun proprio uomo fosse finito in mani avversarie. Il
bollettino parla di 76 feriti negli scontri, di cui 56 in settimana potranno
tornare in servizio. Forse si tratta d’un moto d’orgoglio per aver avuto
decisamente la peggio nello scontro, disarmato eppure mortale fra le truppe. Da
parte indiana si precisa che mentre i propri uomini agivano a mani nude, gruppi
di rinforzo cinese agitavano bastoni e spranghe di ferro, ed effettivamente le
ferite e il decesso di molti avvalorerebbero questa tesi. L’agenzia France Presse ha raccolto versioni di
morte per caduta negli strapiombi e finanche annegamento nel vicino lago
d’altura (Pangong Tso posto a 4.200 metri slm). Gli oltre 4000 km di confine
nell’impervia regione himalayana, fra cui l’inospitale valle Galwan dove sono
scoppiati gli incidenti, risentono dei pluridecennali contrasti fra i due giganti
asiatici. L’accusa di Delhi riguarda una recente avanzata delle guardie rosse
nei territori di competenza indiana per impedire la conclusione dei lavori su
una strada di collegamento creata dagli indiani. Questa via conduce a una pista
di decollo non lontano dallo Xinjiang e dal Pakistan.
Storie di frontiere sperdute, ma sensibilissime ai
fini della sicurezza, che sommano antiche questioni come l’area dell’Aksai
Chin, annessa dai cinesi col vittorioso conflitto del 1962 e che il nazionalismo
hindu rivorrebbe sua. E col territorio del Ladakh passato sotto il controllo
indiano per gli effetti del decreto dello scorso anno con cui il governo Modi
ha cancellato l’autonomia dello Stato Jammu e Kashmir. Dopo i devastanti
effetti del corpo a corpo di centinaia di militari, la diplomazia prova a
ricucire. Ma le dichiarazioni a doppio senso di Narendra Modi: “Non c’è dubbio che l’India voglia la pace,
ma se verrà provocata risponderà in modo adeguato” possono portare altrove.
Ora uno dei suoi generali rincara la dose, definisce l’operazione di Pechino
una provocazione preordinata, figlia della politica di corrosione praticata dai
cinesi in quei territori. Poi c’è la propaganda del Bharatija Janata Party,
volta a soffiare sul fuoco in politica interna, estera, verso le minoranze
etniche, contro le componenti religiose non hindu. E se l’atea Cina non può
essere accusata di confessionalismo, c’è sempre la geopolitica a offrire
appigli, l’ipotesi di voler favorire il Pakistan islamico è scontata, ma di
sicuro effetto.
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