giovedì 12 dicembre 2019

Attacco al Rojava. Fine di un'utopia?


Nei sette anni vissuti coraggiosamente l’Amministrazione Autonoma della Siria del Nord-est, più conosciuta come Rojava che in lingua kurda vuol dire “l’Occidente”, ha inseguito sogni e bruciato tappe, ha perduto vite in luminose spianate e fra le macerie di case sbriciolate dalle granate e guadagnato sostegno che non è necessariamente futuro. Anzi. Colpa di ciò che è accaduto con l’ultima invasione turca beffardamente denominata “Fonte di pace”, e soprattutto con la stretta di mano fra Putin ed Erdoğan.  Il signore del Cremlino nella veste di “protettore” del vicino Medio Oriente ha sdoganato la deportazione di massa della gente kurda dal confine turco, così il confederalismo democratico profumato di ecologia, laicità, femminismo segna uno stop, perlomeno nella veste realizzativa conosciuta nelle difficili fasi di conflitti locali. E’ stata proprio la guerra civile siriana, cui i combattenti delle ‘Unità di difesa del popolo e delle donne’ (Ypg e Ypj) hanno offerto l’attivo contributo per liberare decine e decine di chilometri dalle bandiere nere e dall’oscurantismo dell’Isis, a concimare il fiore del Rojava. Non che gli ideali dei kurdi di Siria fossero bellicisti, però le avanguardie di questa gente pongono parimenti l’organizzazione socio-politica e quella militare, e si son trovati a difendere armi in pugno una terra dove la Storia li ha collocati da un millennio, seppure altre etnìe son vissute in quei luoghi e si son viste allontanate dalle autorità di turno, soprattutto in epoca moderna.

Il sogno del Rojava prendeva corpo nel 2012. Una crescita rapida e radicale pur vissuta nella polvere, nella precarietà, nei rischi della fase iniziale del conflitto civile siriano, diventato gradualmente guerra aperta ad attori esterni. Nei cantoni di Efrin, Kobanê, Cizïrê vivevano fino alla metà dell’ottobre scorso due milioni di kurdi che a guerra aperta son rimasti lì, perché muoversi significava rischiare più di quanto gli prospettavano l’indisponibilità dell’esercito lealista di Asad che, come altri considera costoro ladri di terra. E’ il contrappasso dei kurdi, che pure in certe fasi storiche sono stati irretiti e usati per combattere e scacciare altre etnìe, per poi finire essi stessi vittime. L’inseguimento di speranze e illusioni, oltre ai raggiri predisposti dalle potenze che nel primo dopoguerra ridisegnavano il Mashreq, passarono per il Trattato di Sevrès del 1920 e s’infransero su quello di Losanna di tre anni dopo. Così fra i vasi di coccio che le nazionalità armena e kurda rappresentavano rispetto a quelli di ferro di etnìe maggiormente protette, quella kurda finì penalizzata. Visse la propria diaspora, finendo fra ex imperi (Persie e Turchia) ridimensionati dal tempo e dalle nuove potenze e Stati nascenti (Siria e Iraq) dove la perfidia imperiale britannica voleva proseguire i suoi giochi se non amministrativi sicuramente economici.

La diaspora predisposta dai potentati del nuovo assetto mondiale, che aveva diviso in gruppi più o meno numerosi la popolazione kurda, fu sigillata dall’ideologia di punta dominante fra Ottocento e Novecento: il nazionalismo. Che, comunque, creava figli e figliastri, secondo interessi tangibili e anche retaggi culturali. Da quest’ultimi “il popolo delle montagne”, come venivano definiti i kurdi da chi oltre alla lingua voleva cancellarne anche le radici, furono sempre tenuti a distanza, ritrovandosi isolati oltre che dominati. A poco servivano le periodiche rivolte: a inizio degli anni Venti e a metà dei Trenta sempre nella regione di Dersim, sempre represse nel sangue anche utilizzando altre minoranze come i circassi, uno dei bracci armati della Turchia kemalista. E le depravate scorrerie registrate non solo nelle fasi della recente guerra siriana ma in repressioni comunque del Terzo Millennio, avevano precedenti banditeschi con gente murata viva per non essersi arresa. Comunque l’accanimento anti-kurdo che il factotum dell’Islam politico di Turchia - partito attivista, diventato sindaco di Istanbul, quindi leader anche incarcerato, poi segretario e premier e presidente che propugna e realizza un presidenzialismo da culto della persona, pur avendo praticato un approccio col realismo della Road Map del capo kurdo Öcalan - è una riproposizione di quanto il nazionalismo kemalista più bieco ha compiuto negli anni Ottanta. L’epoca dell’ultima ondata militarista che cercava di sradicare i kurdi con ogni mezzo. Una pratica fallimentare.

Però eguale disamore, se non proprio odio, i kurdi d’oltreconfine in Siria, l’hanno raccolto da altre sponde. Sebbene, nella fase di formazione della moderna Siria sotto il protettorato francese, clan kurdi di proprietari terrieri e contadini meno abbienti vivessero in alcune aree e condividessero coi beduini arabi luoghi, tragitti e transumanze commerciali. Alcuni ufficiali kurdi risultavano fra i protagonisti politici dell’indipendenza del Paese e Shukri al-Qwwatlï venne eletto per due mandati presidente della Repubblica. Eppure un certo nazionalismo arabo lavorava per una loro marginalizzazione dal sistema, nel 1962 una legge tolse la cittadinanza a oltre centomila kurdi, egualmente si comportava la dirigenza del partito Ba’ath che prese il potere con un colpo di Stato.  L’ennesimo golpismo dell’ufficiale Hafiz Asad, diventato presidente nel 1970, compiva verso la comunità kurda giri di valzer per utilizzarli a proprio favore, sfruttandone le doti militari e assimilandoli in corpi speciali assieme ai vari clan alawiti. Fu un passo che costituì una tregua solo parziale verso la collettività. Perché negli anni Novanta molti kurdi pativano privazioni del diritto di voto, di diritti sociali e sanitari, fino all’impossibilità di rinnovare carte d’identità e passaporti, così da diventare cittadini di serie B, incapaci a votare e accedere a lavori pubblici. Nel 2010 questi ‘apolidi’ erano calcolati in oltre trecentomila. E’ la politica della ‘carota e del bastone’ che l’attuale presidente siriano Bashir ha appreso dal padre e che lo conduceva a inizio mandato a incontrare i capi della comunità riempiendoli di promesse, mentre faceva infiltrare da agenti Shabiha i loro già frazionati partiti (Democratico, Democratico Progressista, Unione popolare, Kurdo di sinistra) per poterli controllare.

Per questo motivo una frangia orientata su posizioni di difesa dell’identità per la ricerca d’un futuro da vivere nel presente ha dato vita al Partito dell’Unione Democratica, propulsore della vicinanza ideale col confederalismo democratico prospettato da Abdullah Öcalan. Era l’avvìo del progetto Rojava che, nato con l’autogestione nel cantone di Kobanê, si allargava a una vasta area successivamente oggetto dei tentativi di espansione dello Stato Islamico. Nel frattempo l’esercito siriano, impegnato a difendere i territori attorno alla capitale, concentrava le forze nelle aree centro-occidentali disinteressandosi del controllo sui tre cantoni difesi militarmente (seppure con armi leggere) dalle milizie kurde. Queste, nel corso del conflitto svolto in prima linea contro i jihadisti dell’Isis, sono state sostenute dal materiale bellico procurato dagli Stati Uniti. Quando nel marzo 2016 la conferenza del “Movimento per una società democratica” annunciava la nascita della Federazione del Rojava-Siria del nord, il presidente Bashar manifestò il suo aperto dissenso, sostenendo che l’esercito di Siria avrebbe ripreso il controllo anche di quel lembo di terra che appartiene al governo di Damasco. Cosa turbasse il dittatorello del clan Asad è presto detto: il progetto rivoluzionario del Rojava che offre alla gente alternative al paternalismo autoritario che offusca e opprime il Medio Oriente da sessant’anni. Uno dei motivi della rivolta del marzo 2011 e tema dominante delle ‘primavere arabe’.

Dunque: i kurdi, fra i gruppi che si sono scontrati sul terreno siriano erano fra i più rodati militarmente e indirizzati politicamente verso un piano che i suoi teorici definiscono “Primavera dei popoli”. A partire dalla metà di luglio 2012 hanno attuato la conquista armata dei territori dove vive la propria gente, accanto a Kobanê ci sono Amude, Derik, Tiltemïr e diverse altre cittadine rese tutte autonome, ma le forze delle Ypg e Ypj hanno preso il controllo anche dei quartieri kurdi di Aleppo e  Raqqa, dove agivano gruppi armati jihadisti e in seguito i miliziani neri. La maggiore forza politica kurda, il Pyd, ha rappresentato un polo aggregatore per altre frange politiche che hanno costituito l’Assemblea nazionale dei kurdi di Siria (Enks) e con questo passo la rappresentanza della comunità è entrata in rapporto con la diplomazia internazionale, comprese le potenze che osservano, troppo a lungo passivamente, lo sviluppo d’un conflitto diventato guerra sporca ed eccidio di massa. Evitando una peraltro impossibile cronistoria, estranea allo spirito di queste righe, ricordiamo gli elementi costruttivi e innovativi del progetto kurdo di cui la stampa mainstream ha divulgato prettamente note sulle forze di difesa. Accanto a esse è stato creato anche un corpo di polizia per vigilare sulla sicurezza degli abitanti in luoghi sottoposti allo stress del conflitto dov’è possibile riscontrare anche reati comuni.

Ma quel che brilla nell’utopia che, mese dopo mese, per sette anni ha preso corpo è la pratica della democrazia diretta tramite le assemblee popolari e i comitati chiamati anch’essi del popolo volti a risolvere questioni sociali, giudiziarie oltreché economiche. Certo con la mente e i corpi impegnati nell’autodifesa e a evitare l’embargo economico imposto dal minaccioso confinante turco. Ma anche i micro progetti rivolti alle cooperative in alcune città (fra esse Efrin e Kobanê) sono stati dei micro gioielli sparsi nella polvere, linfa vitale d’un sogno non basato solo su promesse e sentimento bensì su cose tangibili per continuare a costruire quel percorso. Fra le gemme con cui le avanguardie politiche del Pyd puntano alla trasformazione umana e sociale della comunità si pone, come elemento centrale, la questione femminile. Incentrata non solo sulla parità di genere, che nel Rojava ha fatto sorgere reparti armati tutti al femminile, ma nella trasformazione dei rapporti fra sessi nel privato e nel pubblico, nei clan familiari e nelle Istituzione che pure esistono con tanto di ministeri. Una rieducazione del mondo maschile affinché archivi machismo e patriarcato e ricerchi, assieme alle donne, una nuova essenza di sé e del vivere comune. Quella rivoluzione a tutto tondo che per decenni il progressismo mondiale ha provato a impostare con risultati scarsi se non proprio fallimentari.


A sostegno di questa trasformazione radicale che deve compiere un lungo percorso e sedimentare, il rapporto educativo con le nuove generazioni, partendo dall’infanzia, costituisce nel progetto del Rojava un elemento basilare e imprescindibile. Oltre a rilanciare lo studio della lingua, dell’arte e della cultura dell’etnìa, che per decenni e nelle situazioni politiche più diverse (dal mondo post ottomano e coloniale alla repubblica sedicente socialista del Ba’ath) erano state vietate e represse. Così i centri d’arte di Derik, Amude, Aleppo, e ancora Efrin e Kobanê sono stati nei sette anni della paura e della violenza un’àncora di orgoglio per un futuro dalle prospettive diverse. In questo mondo nuovo dove l’energia elettrica c’era e non c’era, e spesso con essa generi di esistenza primari, non generi superflui ma addirittura l’acqua, la spinta al miglioramento e l’affermazione della normalità hanno creato anche un servizio di organi mediatici: una tivù e una radio che trasmettono in quattro città, oltre a giornali per la diffusione di un’informazione alternativa ai canali ufficiali dei regimi turco e siriano. Tutto questo ben di Dio è messo in discussione dal patto sancito a Sochi da Vladimir Putin e Recep Tayyip Erdoğan il 22 ottobre scorso e accettato da tutti, compresi obtorto collo i non consultati rappresentanti kurdi. Prevede la creazione d’una ‘zona cuscinetto’ della profondità di 30 km e per 120 di lunghezza, da Tal Abyad a Ras al Ain, ingombra di autoblindo con la mezzaluna e di pattuglie russe che pattugliano il territorio da sette anni a giurisdizione kurda. E mette fine, per ora, a quell’esperienza.

Ancora più inquietante è ciò che il laboratorio costituzionale per la Siria, che ha iniziato a riunirsi a Ginevra a fine ottobre, sta preparando per un vago domani. Il fatto che sostituisca un laboratorio di guerra che in otto anni ha prodotto mezzo milione di morti, quasi tre milioni di feriti, sei milioni di rifugiati all’estero e sette milioni di sfollati interni, è sicuramente positivo. Però, mentre a discutere di riforma costituzionale e future elezioni sarà un comitato di 150 membri, in realtà l’avvenire su quella terra che è stato  un  meraviglioso crocevia di civiltà e fedi è nelle mani di potentati grandi e piccoli che della ‘macelleria siriana’ si sono disinteressati come le amministrazioni statunitensi, o da un certo punto l’hanno inserita nei propri interessati orizzonti come ha fatto Mosca del Terzo Millennio che guarda al Mediterraneo di levante e al Medio Oriente. E dell’Erdoğan, a lungo infiammatore del caos siriano e ora invasore, e non ultimo del cinico affossatore di civili sunniti Bashir Asad. Quindi, in cauda venenum, i contendenti a distanza iraniani e sauditi, consiglieri armatori di miliziani in una terra su cui ciascuno vuol stabilire l’influenza. Non si salvano le anime belle dell’Unione europea, in verità più zombi politici che convitati di pietra. E’ il crudele mix del realismo politico, specie quando segue l’ecatombe della pietà oltre che dell’umanità. In questo quadro lo spazio per proseguire l’esperimento di democrazia diretta del Rojava sembra ristretto o inesistente. Chi discute dei prossimi equilibri sembra poco disposto a concessioni verso gli ideali che migliorano l’animo e i corpi di donne e di uomini. Eppure l’utopia è dura a morire. 

Pubblicato sul numero di dicembre del mensile "Confronti"

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