Nella Turchia erdoğaniana il modello universitario ‘Şehir’ ha
incarnato, dalla data della sua nascita (2010), il progetto di spezzare il
dominio secolare nel mondo accademico. Lo fa con organismi d’eccellenza che
provvedono alla formazione di giovani studenti, futura classe dirigente, d’un
Paese che a maggioranza si riconosce nel disegno politico islamico. Oggi la
prestigiosa sede di Istanbul, e altre filiali, rischiano la chiusura lasciando
orfani settemila studenti, parecchi stranieri, che ne seguono i corsi. C’è,
infatti, un blocco finanziario disposto dalla Corte di giustizia dopo che la
banca statale Halkbank ha congelato
un credito di 70 milioni di dollari destinati al sistema universitario, che si
ritrova nell’impossibilità di pagare stipendi ai docenti e finanziare attività
amministrative e didattiche. Una sorta di bancarotta. Il progetto ‘Şehir’ era partorito
dalla mente di Ahmet Davutoğlu, professore emerito e all’epoca teorico della
linea neo ottomana che trovava spazio nella geopolitica turca grazie al suo
ruolo di ministro degli Esteri. Davutoğlu era talmente prossimo a Erdoğan da
esserne considerato il braccio destro e suggeritore creativo, finì per
diventare premier nel 2014 (fino al 2016) quando il capo dava la scalata alla
presidenza del Paese. A un tratto fra i due è sceso il gelo. Era il momento successivo
al tentativo di golpe, da cui scaturirono: la caccia ai gülenisti, la grande
epurazione, la lotta senza quartiere a oppositori, kurdi, giornalisti, uomini
di cultura, fino alle recenti guerre aperte. Davutoğlu si sfilò da un panorama
che definire battagliero è sminuirlo di molto e recentemente è anche uscito dal
partito di governo, l’Akp, di cui era un esponente di spicco. Ma vista
l’esperienza, il fiuto, la passione, gli interessi, un pensionamento pubblico a
59 anni gli stava stretto. Così gli è brillata la folle idea di formare un
proprio gruppo da contrapporre nientemeno che al partito-Stato del presidente.
L’uomo che si sente sultano, probabilmente anche per le teorizzazioni del professore.
Quest’ultimo, fra l’altro non è il solo ex a tentare la
sortita politica. Anche un altro ministro (dell’Economia) e membro dell’Akp,
Ali Babacan, dopo aver lasciato la casa-madre islamica ha creato un suo
raggruppamento, seppure per ora stando attento a non contrapporlo frontalmente
al potere erdoğaniano. Eppure secondo i pochi commentatori interni alle cose turche
rimasti fedeli al proprio senso critico, e soprattutto rimasti in condizione di
poterlo esprimere, quel che accade all’università Şehir è l’ennesima imboscata da parte del potentissimo presidente, un uomo vendicativo che non
ammette separazioni e dissensi politici. Una sua accusa alla rete Şehir (sistema comunque
non capillare come l’Hizmet di
Fethullah Gülen, ormai del tutto smantellato dalla repressione) parla di un’operazione
volta a defraudare le casse di Halkbank,
avviata con un decreto di Davutoğlu che ora si serve dell’università per fini
politici. L’ex premier rigetta le accuse definendole senza prove e chiede trasparenza
finanziaria generalizzata sulle ricchezze personali di presidenti e ministri,
attuali ed ex. Ovviamente lui compreso che, a suo dire, non ha nulla da celare.
Allo scontro a tutto campo fra figure di primo piano della politica nazionale
fa da contraltare la condizione dei colpiti, studenti e docenti, che protestano
ma temono per il futuro, anche perché finora le loro grida hanno percorso solo
i social, quasi nulla sanno i turchi dai media nazionali controllati dal
governo. Probabilmente il controllo governativo passerà anche su questa
struttura che se non chiuderà - sarebbe assurdo vista la modernità di edifici,
laboratori, biblioteche - passerà di gestione. Il Consiglio Superiore dell’Istruzione
si sta già occupando del caso.
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