Sale, giorno dopo giorno e si è giunti al quinto, la protesta contro
la legge che impedisce a cittadini stranieri islamici di ottenere la
cittadinanza indiana. Ieri ci sono stati sei morti nella provincia federale di
Assam e cento arresti presso le università degli Stati di Delhi e Uttar
Pradesh. Il Parlamento di New Delhi dallo scorso 12 dicembre, emendando una
legge in vigore dal 1955 e introducendo una nuova norma presentata dal partito
di maggioranza (Bharatiya Janata Party),
conferisce la cittadinanza alle minoranze religiose (hindu, sikh, buddista,
jain, parsi, cristiana) provenienti dagli attigui Paesi del Pakistan,
Afghanistan e Bangladesh, ma non ai musulmani. In realtà un primo emendamento
alla legge di metà Novecento si era avuto nel 2016 e non poneva limiti alla
cittadinanza su base religiosa. Faceva riferimento a sei anni di residenza
ufficiale in India, contro i dodici richiesti negli anni Cinquanta. Poi, di
recente, la chiusura ai musulmani. Ieri negli atenei Jamia Millia Islamia e Aligarh Muslim University gli studenti che
contestavano la discriminatoria scelta governativa sono stati duramente
bastonati, con loro hanno subìto violenze anche colleghi impegnati nei corsi e
chi studiava in biblioteca. Un’incursione che le autorità accademiche hanno
stigmatizzato, mentre il ministero dell’Interno sosteneva servisse alla sicurezza.
Ne è nato il caos: i giovani si sono scontrati con le forze dell’ordine,
ricevendo nell’area a sud di Delhi anche il sostegno d’una parte della
popolazione. L’India conta una cospicua minoranza islamica, circa 200 milioni
di fedeli, di cui un quarto d’osservanza sciita, concentrati in alcuni Stati
federati (Jammu e Kashmir, Uttar Pradesh, Bengala occidentale ne raccolgono una
copiosa parte).
Sono soprattutto costoro a dar vita alle proteste, accusando
governo, partito di maggioranza e lo stesso premier Modi di polarizzare la
situazione socio-politica facendo montare l’ideologia razzista e anti islamica
della maggioranza hindu. Già negli ultimi mesi l’antico raggruppamento
ultranazionalista ispirato a un fondamentalismo religioso, Rashtriya Swayamsevak Sangh, rinfocolava l’odio anti islamico senza
che Istituzioni e polizia prendessero alcun provvedimento. Anzi. Secondo
diversi osservatori una costante della linea del Bjp durante il secondo mandato
per Modi è scavare un solco profondo verso la comunità musulmana,
discriminandola e perseguitandola. La legge in questione segue tale tendenza. Modi
anziché smorzare i toni, non perde occasione pubblica per additare il Partito
del Congresso e chiunque s’oppone alla maggioranza di fomentare violenza. Da
quest’estate, poi, si susseguono iniziative anti immigrazione sostenute dal
ministro dell’Interno Shah, braccio destro del primo ministro. Note le sue
catalogazioni dei bangladeshi coi nomignoli di ‘infiltrati’ e ‘termiti’ da estirpare
per le sempiterne “ragioni di sicurezza”. Per non parlare dell’ostacolo posto
da più di un anno all’arrivo di rifugiati Rohingya, già colpiti da sopraffazione
etnica in Myanmar. Insomma, la leadership governativa fa di tutto per
accentuare l’opposizione ai musulmani interni ed esterni. La vessazione
introdotta dalla nuova norma è in aperto conflitto con l’articolo 14 della
Costituzione indiana che garantisce il diritto di eguaglianza. Eppure il coro
dei costituzionalisti indiani e internazionali, che parlano apertamente di
violazione e ostilità, non trova udienza né nel governo né nel Parlamento. Così
il conflitto interno è destinato ad allargarsi, un’eventualità che piace al
fanatismo hindu.
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