Il tam tam che corre sulle labbra dei giovani disoccupati (il 30% di
ragazze e ragazzi d’Algeria fra i 18 e i 26 anni) è: oggi a casa, domani in
strada. L’oggi è giorno di voto per le presidenziali sostenute con forza
dall’uomo della forza, il generale Ahmed Saïd Salah. Domani è giorno di
preghiera, come quel 22 febbraio quando iniziò l’Hirak, il movimento di protesta che ha fatto cadere il
presidente-raìs Bouteflika e che da mesi scuote un regime che cerca di
perpetuarsi. Così gli osservatori s’aspettano una corposa astensione
dell’elettorato algerino che, del resto, ha già espresso in passato (20% la percentuale
delle ultime elezioni) la sua diaspora dal sistema. E se c’è una frangia di
cittadini che in queste settimane ha risposto alle sollecitazioni di militari e
Fln, sollecitazioni di vicinanza al voto, la spaccatura fra i due mondi è
profonda. Gli elettori pro apparato, che dovranno scegliere fra candidati tutti
prossimi al deposto ‘uomo-regime’, si
sbracciano nel ricordare come il contestato esercito salvò il Paese dalla
follìa jihadista del ‘decennio nero’ (1990-2000). Ma solo chi non c’era può credere
a questa versione univoca dei fatti. Tutte le famiglie d’Algeria contano lutti
per la passata guerra civile, combattuta senza esclusione di colpi e con massacri
indiscriminati da parte del braccio armato del Fronte Islamico di Salvezza e
dai reparti speciali delle Forze Armate.
Il voltare pagina, la riconciliazione fu una ricucitura parziale
perché due degli elementi di quello scontro non sono stati mai sanati: l’arrivo
di una vera democrazia - ignorata dal traghettatore Bouteflika - e l’equità
sociale smentite dal familismo del suo clan, dalla conseguente corruzione,
dalla repressione mai cessata come sa pure la nuova generazione, nata appunto
dopo quel periodo e scesa in strada dalla scorsa primavera per mancanza di lavoro
e prospettive d’ogni genere. Questa gioventù, sempre composta, sempre pacifica
nei suoi cortei ha pagato con arresti (più di mille) il percorso di protesta.
Ora non ripone nessuna speranza nei cinque candidati legati al passato e in
nulla operosi per cercare migliorie. I loro curricula parlano chiaro. Abdelaziz Belaïd, il più giovane (56
anni) a proporsi come presidente è l’unico a non aver ricoperto cariche di
ministro. E’ però cresciuto in seno al Fronte
di Liberazione Nazionale, a lungo partito unico della nazione. Alle
presidenziali del 2004 sostenne Ali Benflis, contro Bouteflika. Con le
‘aperture’ del 2012 formò un proprio gruppo il Fronte El Moustakbal e due anni dopo si presentò alle elezioni. La
vendetta di Bouteflika consistette nel collocare proprio Benflis nel suo
collegio del Nord-est, così Belaïd raccolse solo il 3% dei consensi. Ali Benflis di anni ne ha 75 e per due
volte s’è opposto a Bouteflika senza successo. Ora che la sua pecora nera non
c’è più, spera. E’ stato ministro della Giustizia prima del ‘decennio nero’.
Tornò alla politica con Bouteflika, diventando per un triennio premier
(2000-2003). Viene ricordato per l’emanazione d’un decreto che vietava ogni
manifestazione dal 2001. Decreto cui più volte i governi algerini si sono
richiamati, fino ai giorni nostri.
Albdelkader Bengrina, cinquantasettenne animatore d’un piccolo
raggruppamento islamista (Al-Bina
Al-Watani) che lo sostiene nella per lui impossibile corsa alla presidenza
che i militari non permetterebbero mai. Tale presenza costituisce, però,
l’alibi di ‘apertura e democrazia’ della lobby delle stellette che non
dimentica come Bengrina nei mesi scorsi non muovesse obiezioni all’ipotesi
d’una quinta candidatura presidenziale del vecchio e malato Bouteflika. Azzedine Mihoubi, sessantenne e
giornalista assai gradito al regime, iniziò la carriera politica, quand’era
ancora accesa la guerra interna, col Rassemblement
National Démocretique, un partito che piace ai militari. Ricopriva
l’incarico di ministro della Cultura nei giorni in cui la contestazione di
febbraio ha preso avvio. Viene considerato un moderato fedele al sistema, e per
questo è ben visto dal fronte di continuità col passato. Un altro vecchio
perlomeno d’età (74 anni) è Abdelmadjid
Tebboune. Fu primo ministro nel 2017 per pochi mesi, venne licenziato per
aver colpito un affarista, appaltatore per conto del fratello del presidente
Saïd Bouteflika. Eppure durante la crisi della recente contestazione si è
espresso anche lui per un quinto mandato “all’eterno algerino”. Per questo panorama
la gioventù disoccupata e al più sottopagata, 150-200 euro mensili per impieghi
professionali da ottenere con la catena delle raccomandazioni, non vuole né può
votare. E con loro migliaia di famiglie che vorrebbero un futuro. Dicono che l’Hirak proseguirà, chiunque sarà il
presidente. Un presidente che guarda indietro non può guidare l’Algeria.
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