Credevo - credevamo - di portare certi assassini davanti
alla Corte di Giustizia, purtroppo questi elementi son riusciti a prendere
ancora maggior potere. Un antico proverbio afghano parla di lupi che si vestono
da capre. S’attaglia benissimo alla classe politica che da decenni decide la
sorte del Paese e della sua gente.
Le donne, le
attiviste, le giovani Malalai oggi come si sentono?
Per fortuna non mancano. Mancano i mezzi, gli appoggi
interni e internazionali. I problemi sono tanti, innanzitutto il livello di
sicurezza, quindi il sostegno economico. Negli ultimi tempi è apparso anche un
attivismo legato ai social media che spesso cade nella trappola
dell’individualismo e dell’autoreferenzialità. Costoro, prevalentemente
giovani, risentono delle mode, diventano influencer
nel senso deteriore del termine, poiché più che svegliare coscienze le
sostituiscono e pensano solo alla propria posizione nella società. Viaggiano fra
la celebrazione di sé e il piccolo potere da raggiungere. Sono persone che
finiscono facilmente a servire il grande potere.
In altre situazioni
pur devastate del Medio Oriente la gente si ribella, perché da voi non accade?
Prima delle Primavere arabe, abbiamo avuto anche noi cortei
e manifestazioni. E’ finita in massacri. La popolazione, già segnata dai lutti
della guerra civile degli anni Novanta, è immediatamente riparata nella nicchia
privata. Una nicchia, purtroppo, disperata. La tendenza vista negli ultimi anni
è una minore attenzione alla vita politica, ogni famiglia cerca di sopravvivere
in un contesto che s’è fatto terribile. La maggioranza delle persone è povera,
l’educazione e l’istruzione sono concetti irraggiungibili, perciò non
s’interessano di attivismo. Quest’ultimo può rinfocolarsi solo grazie a una
maggiore cultura che insegna a uscire da orizzonti minimi e soggettivi, a
essere ottimisti, ad agire collettivamente.
E in un orizzonte bloccato
quant’è la speranza e quanta la rassegnazione?
Tenere accesa la speranza è difficile, trasformarla in
realtà è complesso. Non abbiamo solo un problema, siamo invasi da cento, mille
problemi. Con le superpotenze che ci opprimono, con la politica interna, coi
vicini concorrenti, con quelli che puntano all’ingerenza nella vita afghana, con
la classe media che serve il potere. I nostri intellettuali cercano padroni,
lavorano esclusivamente per loro. Eppure vedo barlumi di speranza. Recentemente
ho conosciuto un uomo che quotidianamente, dal villaggio dove vive nelle strade
impervie della provincia dove girano anche talebani, s’accolla il rischio di
portare con la sua motocicletta le due figlie a studiare in città. Si augura
che le ragazze possano diventare medico, così da aiutare anche la sua comunità
che è priva di quest’indispensabile figura professionale. Un anno fa è
diventata virale sui social l’immagine d’una donna che svolgeva l’esame
d’ingresso all’università mentre allattava il proprio neonato. Egualmente aveva
lasciato il segno l’attacco terroristico compiuto contro un centro di Kabul che
preparava gli studenti per le prove d’ingresso all’università. L’attentato fece
secondo il governo cinquanta vittime, noi pensiamo siano state molte di più. Ma
ciò che mi apre il cuore è che quel centro, chiuso per alcuni mesi, ha
riavviato i corsi ed è pieno di studenti che non si mostrano intimoriti. Questo
è l’Afghanistan che resiste allo Stato della paura.
Invece la fuga dei
giovani afghani in Occidente è una resa o l’unica salvezza?
Ultimamente il numero dei migranti è cresciuto per la nota
mancanza di sicurezza e l’evidente fallimento del modello imposto con l’occupazione
militare Nato. In genere si tratta di ragazzi, mediamente istruiti che cercano
un domani altrove. Chi non riesce a fuggire e non sa darsi una ragione del
nostro nero orizzonte arriva a togliersi la vita: i suicidi sono in aumento,
come lo è il consumo di oppiacei, introdotti dai grandi trafficanti anche nel
mercato interno a prezzi stracciati. Un fenomeno rivolto non all’economia, ma
all’ideologia: un’ideologia della distruzione che va di pari passo con quella
del terrore.
E’ una fuga tutta al
maschile…
In genere è così. Pesano le tradizioni, la società
patriarcale, il pashtunwali.
Nel maschilismo della
società afghana quanto incide l’aspetto religioso e quanto altro?
Religione e cultura contribuiscono a conservare quest’idea di
società chiusa e arretrata. Però esistono tanti interessi di chi lavora per il
potere, dall’intellighenzia della geopolitica internazionale, a quegli
intellettuali afghani di cui parlavo che per sopravvivere in casa propria hanno
scelto di servire il fondamentalismo oppure il falso modello occidentale che,
come abbiamo visto con le amministrazioni di Kharzai e Ghani, preserva l’estremismo antifemminile. La Storia si
ripete. L’Afghanistan del 1920 ebbe in Amanullah un sovrano riformista e
illuminato, la Gran Bretagna spinse sui sentimenti più tradizionalisti e
retrivi del tribalismo locale per emarginarlo e chiudere quelle aperture.
Quella divisione fra progressisti e reazionari (non importa se laici o
clericali) s’è protratta nel tempo, dura da un secolo. E chi oggi interviene
dall’esterno nel nostro Paese percorre la medesima strada. C’è stata, da parte
di taluni pseudo intellettuali, una manipolazione del concetto di secolarismo.
L’hanno contrapposto allo spirito religioso in cui molta gente si riconosce, così
da dipingerlo come una sorta di blasfemìa e proseguire il controllo sulla mente
e l’operato della popolazione, maschile e femminile.
Nei movimenti
progressisti afghani che frequenti le donne hanno un ruolo d’avanguardia, con
gli attivisti uomini c’è parità di genere?
Abbiamo avuto tanti esempi nel nostro movimento, non solo la
fondatrice di Rawa Meena Keshwar Kamal che aveva uno splendido rapporto col
compagno e marito. Il mio stesso nome riprende quello d’una figura mitica della
resistenza afghana all’invasione inglese, poi penso alle compagne con cui sono
cresciuta e a coloro che proseguono questa lotta. Un impegno realizzato al
fianco di uomini, nella vita privata e pubblica. Certo, con tutte le difficoltà
dell’esistenza in un ambiente dove l’integralismo politico è pressante e
aggressivo.
Alcune realtà
mediorientali, penso ai kurdi, ritengono vitale questo tema per perseguire
trasformazioni politiche e sociali
Sì, è la strada giusta, perché la Rivoluzione con la
maiuscola ha bisogno di idee e fatti concreti. Nella società afghana il
paternalismo produce la subordinazione femminile all’uomo ed è il frutto del
tradizionalismo patriarcale. Ciò che noi indichiamo e mostriamo è una
trasformazione dei comportamenti e dei costumi; nelle nostre strutture, nella
nostra vita lo teorizziamo e lo applichiamo. Personalmente riesco a vivere, e come
me tante attiviste afghane vivono, grazie al contributo dei compagni che ci
affiancano nei ruoli più vari. C’è una sola ombra che non nascondo. Ultimamente
nel reclutamento di nuovi militanti vedo un aspetto un po’ preoccupante: parecchi
giovani uomini ripiegano nel soggettivismo, sfilandosi dall’impegno e
rifugiandosi nell’individualismo che è l’anticamera della subalternità.
Pubblicato su Q code Magazine
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