Come loro, più di loro. L’Isis Khorasan insegue da quattro anni
il primato della destabilizzazione dell’Afghanistan a colpi di esplosioni e
vittime civili. Cercava di colpire il governo Ghani con attentati più eclatanti
e spregiudicati dei talebani. Mentre quest’ultimi indirizzavano camion-bomba e
azioni armate prevalentemente contro obiettivi politici (centri
dell’Intelligence, caserme dell’esercito, militari) falciando spesso anche i
poveri cittadini capitati nel luogo sbagliato, i jihadisti del Khorasan mirano
direttamente a quest’ultimi. Li sterminano nelle moschee sciite, nelle scuole,
negli ospedali, nelle strutture per neonati. L’hanno fatto fino ad agosto
scorso. Continuano a farlo nell’Emirato, con più gusto perché ora lo scontro
coi turbanti non è indiretto. E’ rivolto a quest’ultimi, sebbene finora non ne
abbiano sparso il sangue. Le vite troncate continuano a essere quelle della gente
per via, però gli obiettivi si avvicinano agli uomini di Akhundzada. Oggi
l’Isis-K ha eliminato diciannove persone. Non l’ha rivendicato, ma a tutti
appare chiara la sua matrice. Il numero delle vittime, come sempre, potrà
aumentare se il cuore di qualcuno dei quarantatré feriti cesserà di battere. Sono
state registrate due esplosioni in successione nella capitale. In pieno centro,
all’entrata dell’ospedale militare Mohammad Daud Khan,
appena fuori dalla zona delle ambasciate, quella statunitense dista a mala pena
cinquecento metri. L’area è stata per un ventennio una città proibita,
blindatissima ai più, ipercontrollata con un triplo filtro di check-point.
Eppure i taliban riuscivano a penetrarla e a uccidere lì i soldati di guardia. In
quel modo dicevano a Karzai, a Ghani, ai loro padrini statunitensi, che
inizialmente disponevano marines a difesa della loro ambasciata poi usarono
solo contractors: “Colpisco quando voglio”. Ora i ruoli sono invertiti. A presiedere i
controlli ci sono le pattuglie dei turbanti, che già in varie occasioni si sono
dimostrate inadatte alla bisogna. Nei filmati sui pattugliamenti a Kabul, i
giovani miliziani dell’Emirato paiono intenti a mettersi in mostra, a farsi
fotografare più che a stabilire un reale controllo d’un territorio di per sé difficile
da setacciare. Ma chi ne coordina il “lavoro”, gli altisonanti nomi di Yacoob
(ministro della Difesa) e Haqqani jr (ministro dell’Interno), probabilmente
risultava più capace a pianificare attacchi che a prevenirli. I due dovrebbero ben
conoscere strategie e canali d’infiltrazione, eppure non riescono a frenare i
rivali in terrore. A meno non abbiano rinunciato a priori a quel compito, cosa
che non traspare dalle dichiarazioni ufficiali. La ricostruzione della “sicurezza”
cerca di minimizzare: l’azione odierna è opera di un kamikaze coadiuvato da
un compagno armato che ha continuato a sparare dopo la prima deflagrazione. Secondo
testimonianze raccolte dall’Agenzia
Bakhtar ci sarebbe stato un vero commando, riuscito a penetrare nell’ospedale e ingaggiare un lungo conflitto
a fuoco con le ‘forze di vigilanza’. Mentre un infermiere, intervistato dai
media locali, ha parlato di due esplosioni susseguitesi nell’arco di dieci
minuti. Non è certo se dentro o fuori dalla cerchia muraria del nosocomio.
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