Ventitré milioni di afghani rischiano la fame, afferma
un recente rapporto del World Food
Programme che ha corretto in peggio, aumentandola di tre milioni di unità,
la stima offerta a inizio anno d’un pericolo a livello mondiale per
quarantacinque milioni di persone. Non è un caso che la disgrazia riguardi
Paesi dove problemi sociali, geopolitici, climatici rendono difficoltosi anche
aiuti umanitari. Oltre all’Afghanistan sono coinvolte Haiti e alcune nazioni
africane (Etiopia, Somalia, Angola, Kenia, Burundi). La situazione afghana è
precipitata nell’ultimo anno, anche prima della caduta di Kabul in mano
talebana, per cause interne: le reiterate violenze che allontanano la
popolazione d’ogni sesso dalle attività lavorative, la siccità. E per intralci
internazionali: la pandemia e, ultimo, il blocco voluto dagli Stati Uniti dei
fondi destinati alla nazione (9.5 miliardi di dollari) tanto per opporsi alla
ricomparsa dell’Emirato. Abbiamo visto come quest’evento sia stato un tutt’uno
con l’implosione del regime Ghani, il liquefarsi delle locali Forze Armate, la
fuga del presidente e del suo staff con denari destinati all’amministrazione
pubblica. Tutto ciò era prevedibile con gli Accordi di Doha. Ma volendo evitare
di riconoscere un sistema attuato dagli uomini con cui la Casa Bianca ha
trattato, ora si sta punendo un intero popolo che rischia la salute e la vita
stessa. A ruota degli Usa l’Unione Europea ha tagliato i fondi destinati al
Paese, e l’hanno fatto il FMI e la Banca Mondiale che avevano previsto per
l’anno in corso di elargire rispettivamente 400 e 800 milioni di dollari. Quel
miliardo abbondante potrebbe sfamare milioni di disperati. Egualmente i nove
miliardi congelati offrirebbero un sostegno non secondario. Ma si dice di non
voler offrire capitali a chi, come i taliban, possono utilizzarli per piani
terroristici o per proprio tornaconto. Però per due decenni le amministrazioni
Karzai e Ghani hanno incamerato dollari ed euro, anche quando a gestirli,
ai vertici di svariati Esecutivi c’erano terroristi riciclati in qualità di
vicepresidenti: Fahim, Khalili, Dostum, mentre fondamentalisti del calibro di Hekmatyar e
Khan agivano da politici di primo piano.
Uno dei motivi del blocco, che diventa di fatto una ritorsione
verso la già tanto martoriata popolazione, sono le pratiche talebane: segregazione
etnica per gli hazara, segregazione di genere per le donne. Accanto alla
repressione delle iniziali proteste di minuti ma determinatissimi gruppi di attiviste
che lamentavano l’allontanamento femminile dalla politica e dalle professioni imposto
dall’Emirato, sono comparsi: un’obbligata divisione nei corsi universitari fra
studenti e studentesse, il drammatico blocco dell’attività scolastica inferiore
per bambine e ragazze, la dissuasione del lavoro per le donne (rimaste occupate
pur senza salario solo nei ruoli sanitario e di educazione primaria). Ancor più
allarmante è il rilancio di violenze e azioni criminali, giunte sino al
rapimento e all’assassinio di donne che vestivano la divisa, praticavano sport,
s’impegnavano sul fronte sociale e dei diritti. Per questi casi dal ministero
dell’Interno assicurano indagini, ma è proprio il radicalismo di chi dirige
quella struttura – il tristemente noto Sirajuddin Haqqani – a non offrire speranze
di giustizia. Tutto angosciosamente reale. Come è stata reale la pluridecennale
assenza di prospettive che dessero un futuro a chi, allora come oggi, è
costretto a vagare dall’Hindukush ai Carpazi e alle Alpi, abusato e usato da
trafficanti di speranze umane, quelli che mercanteggiano per denaro o per intenti
geopolitici. Per uscire dalla spirale di veti e divieti si dovrebbero cercare
soluzioni di ripiego, perché nell’incerto spazio fra Kunduz e Kandahar, nei
villaggi d’insicure valli da Herat a Jalalabad passando per Kabul, tre milioni
di bambini rischiano di crepare davanti all’inverno che incede. C’è stato il
caso dell’Unicef, che mantiene la
presenza nei campi profughi interni impegnandosi sul fronte sanitario con le
vaccinazioni contro la polio e ha negoziato un accordo coi turbanti, accollandosi il pagamento dei salari di
insegnanti. Così il servizio è comunque garantito senza un passaggio di denaro
nelle mani del governo talebano. Potrebbe essere una strada da seguire anche
per altri interventi, fuori da speculazioni politiche occidentali e
dell’Emirato, attorno al disconoscimento o all’approvazione del regime.
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