L’attentato, l’ultimo del 2 novembre all’interno
dell’ospedale militare di Kabul, nella zona non facilmente accessibile di Wabir
Akbar Khan, evidenzia tutta l’impossibilità talebana di controllare il
territorio. Addirittura il centro della capitale. Più o meno quel che accadeva
al peggior esecutivo Ghani da un paio d’anni a questa parte. Pur agghindati con
divise recuperate nei magazzini del governo precedente, le forniture pagate coi
fondi internazionali ora praticamente azzerati per la disperazione della
popolazione e dello stesso Gotha dell’Emirato, i miliziani diventati esperti di
“sicurezza” hanno solo potuto ingaggiare un conflitto a fuoco con gli
assalitori. Ne hanno eliminati cinque – così dichiara un portavoce taliban –
fra la prima deflagrazione del corpo d’un kamikaze e il secondo martire. Ma fra
le vittime, salite a venticinque, c’è anche un responsabile di quelle Forze di
pattugliamento gestite direttamente dalla Rete di Haqqani: Hamdullah Mokhlis,
tenuto in gran considerazione dal clan. Il suo diretto superiore sia nelle
veste ufficiale di ministro degli Interni, sia in quella di leader del network,
Sirajuddin figlio ed erede del fondatore Jalaluddin, dovrebbe risultare
doppiamente colpito. Perché ha perso un elemento di fiducia e perché il piano
di controllo del Paese è palesemente in crisi. Eppure il passato, remoto e
recente, degli Haqqani rende il gruppo sibillino e inaffidabile. Nei due
decenni di conflitto contro le truppe Nato, la maggioritaria Shura di Quetta in più occasioni ha
riscontrato atteggiamenti riottosi di questi ‘studenti coranici’ che
oscillavano fra i confratelli di Peshawar e la vicinanza al mondo qaedista. Sugli
Haqqani ha sempre potuto contare l’Intelligence pakistana (Isi) interessata a
manipolare le alleanze di guerra e guerriglia oltreconfine così da attuare
cospicue ingerenze. Non è un segreto che nei mesi precedenti la presa del
potere a Kabul, il gruppo (oltre a Sirajuddin ci sono lo zio Khalil, il
fratello Anas, i parenti Najibullah e Abdul) abbia premuto per un’accelerazione
della conquista di tutte le province, così da rendere smodata e caotica la
ritirata statunitense.
Strattonando tutti i firmatari dell’Accordo di Doha, non solo Khalilzad,
gli uomini del Pentagono e della Casa Bianca, ma proprio Baradar il capo
delegazione di casa, considerato un moderato. Delle varie anime della galassia
taliban che ha assunto il comando del Secondo Emirato, gli Haqqani sono
risultati solo parzialmente limitati. Certo, a fine agosto Sirajuddin, che
ambiva a diventare premier, s’è ritrovato “solo” capo di Polizia e Intelligence,
e poco importa se queste figure sono incarnate da combattenti riconvertiti in
ruoli di cui hanno solo vaghezza di competenza. Di fatto il leader della Rete ha
uno dei poteri più ambìti. E poi Anas svolge funzioni politiche nell’attuale
transizione, Khalil patrocina il dicastero dei Rifugiati, Najibullah ha il
portafoglio della Comunicazione, Abdul dell’insegnamento Superiore, non tutti
sono incarichi di primo piano, però il clan è un gruppo di potere organizzato. Organizzatissimo.
Il più coeso fra i talebani. E nei frazionamenti e nelle conflittualità interne
potrebbe – come ha fatto altre volte – dare fondo alla doppiezza. Dunque stare
nell’Emirato, ma aprire porte alla dissidenza che ha dato vita allo Stato
Islamico del Khorasan. Alcuni osservatori giurano che, grazie a loro, un
rilancio del qaedismo in terra afghana sia più di un’ipotesi. Del resto
l’Afghanistan attuale sprofonda in un caos anche maggiore a quello degli ultimi
anni. Dal punto di vista dello stragismo verso i civili la situazione insegue
la frequenza di attentati dell’ultimo triennio. Mancano le incursioni dall’aria
operate da caccia e droni americani, ma non è detto che simili interventi non possano
riprendere. O da parte d’una Nato che torna sui suoi passi o delle potenze
interessate al sottosuolo (la Cina innanzitutto) che l’insicurezza della terra
di sopra blocca nel suo affarismo. E gli Haqqani? Per ora sono ministri dell’Emirato,
potrebbero finire nelle maglie d’un Califfato o del terrorismo guastatore che
esalta la morte a prescindere. Come ha fatto di recente Sirajuddin in un raduno
di parenti dei martiri jihadisti capaci di sacrificare l’esistenza per
contrastare l’invasione occidentale. Del resto gli Haqqani pensano che la
trattativa in Qatar abbia rinnegato la ‘guerra santa’. Una battaglia che deve
proseguire e destabilizzare la pacificazione.
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