Vincono contro tutti gli agricoltori indiani. Contro il premier
Modi, costretto a fare marcia indietro ritirando tre decreti con cui aveva
“riformato” il settore. Vincono contro la stampa ufficiale sempre ambigua verso
la loro rivolta, peraltro in gran parte pacifica seppure macchiata dal sangue
di manifestanti caduti sotto i colpi della polizia, una lotta che i media hanno
cercato inizialmente di sminuire e poi tacciare di passatismo corporativo. I
contadini, quelli minuti e non solo loro, denunciavano come le presunte
riforme, che teoricamente gli consentivano di smerciare direttamente i
prodotti, di fatto li isolavano a vantaggio delle grandi aziende capaci di
mercanteggiare coi ciclopi della produzione e i marchi mondiali. Costoro
impongono prezzi insostenibili per le piccole coltivazioni improntate sui
tradizionali cicli di turnazione dei prodotti, anziché sulle monocolture. Eppure
i piccoli non si son persi d’animo. Dall’ottobre 2020 si sono uniti, nonostante
le difficoltà imposte dalla pandemia di Covid hanno marciato verso grandi
centri, compresa la capitale. Hanno bloccato il traffico con giganteschi
sit-in, sono stati dispersi dalla polizia e sono tornati ad assediare quei
luoghi alla guida di trattori. Hanno circondato le barriere con cui le Forze
dell’Odine li tenevano lontani da New Delhi. Hanno aggirato gli ostacoli
cingendo coi loro corpi lo storico Red Fort in pieno centro cittadino. Dopo le
infuocate giornate dello scorso gennaio, la resistenza passiva proseguiva senza
mollare di un palmo. SI opponevano a cannoni ad acqua, lacrimogeni, fucilate
che colpivano, anche a morte, alcuni di loro. Hanno contato morti in una repressione
durata mesi che non risparmiava neppure i vecchi delle famiglie presenti per via.
Ogni mese cadevano quattro, sette, otto manifestanti, in totale oltre seicento
in differenti distretti, sebbene il centro della protesta sia sempre stato
l’Uttar Pradesh. Ora i politologi affermano che Modi abbia ceduto temendo quel
che potrebbe accadere a febbraio prossimo nel popolosissimo Stato (oltre 200
milioni di abitanti) chiamato alle urne. Perdere in Uttar Pradesh sarebbe un
colpo durissimo per il Bharatra Janata
Party, già messo in difficoltà nel maggio scorso con le elezioni in alcuni
Stati, su tutti un’altra regione assai popolata: il Bengala Occidentale. Comunque
ciò che ha mostrato il movimento degli agricoltori, accanto a tenacia, determinazione,
convinzione di potercela fare, è l’unità d’intenti, aggirando le divisioni religiose
che da anni polarizzano la popolazione all’interno delle stesse categorie di
lavoratori. Il superamento di contrapposizioni anche riguardo ai sistemi di
coltivazione dei campi e dei prodotti, gli esempi di alcune minoranze di
comunità Adivasi attente a proporre varietà autoctone di cereali, il caso di
alcuni tipi di miglio che garantiscono resa e sicurezza alimentare davanti agli
stessi cambiamenti climatici. Così la presunta arretratezza di talune comunità
agricole risulta più oculata e attinente alla realtà di pianificazioni mercantili
legate al profitto unicentrico della monocoltura. E al di là di non secondari
aspetti d’organizzazione economica, tecnica e socio-politica c’è chi vede nel
successo della battaglia del mondo rurale un punto fermo per quel bisogno di
democrazia e dei diritti di cui necessita la società indiana.
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