Partecipando, nella settimana appena conclusa, ad alcune iniziative
pubbliche in presenza e online (con le scuole di Treviso e un’assemblea a
Verbania per la giornata dei diritti umani, presentazione di un libro sulle
donne afghane a Roma) alcuni temi sono emersi nel trattare la tragica attualità
afghana. Il filo conduttore che ha fatto riflettere studenti, attivisti,
cittadini sulla condizione femminile nella travagliata terra dell’Hindu Kush e
dei profughi che da lì fuggono a causa del rinnovato Emirato talebano, non può
esimerci dal ricordare tre tratti del ventennio segnato dalle missioni Enduring Freedom, Isaf, Resolute Support. Volute
politicamente da Stati Uniti e Unione Europea, organizzate militarmente dalla
Nato con l’adesione di 36 Paesi membri e dei propri militari lì inviati (fino a
130.000 uomini), sostenute dai finanziamenti dei rispettivi Parlamenti con
spese onerosissime. Fino a duemilatrecento miliardi di dollari, dieci miliardi
di euro per l’Italia. Tre tratti che ci conducono nelle buie stanze dove
rimbomba l’eco di falsità, fallimenti, crimini.
L’ultimo dei crimini in corso riguarda 23 milioni di afghani che
secondo un dettagliato rapporto Onu rischiano una gravissima denutrizione; fra
loro 3.2 milioni di neonati e bambini la cui crescita, e in tanti casi la
stessa vita, sono messe a repentaglio per la carenza di cibo. Per decisione
dell’amministrazione Biden le banche statunitensi trattengono da quest’estate quote
degli aiuti internazionali (9.5 miliardi di dollari) destinati all’Afghanistan.
Il motivo è la mancanza di garanzie del governo di Kabul verso diritti civili e
di genere, di cui gli statunitensi stranamente si rammentano dopo aver per due
anni concordato coi talebani stessi una sorta di pacificazione della nazione.
Quegli accordi, firmati a Doha nel febbraio 2020, sono stati un riconoscimento ufficiale
dell’ex nemico. Un attore indifendibile agli occhi dell’Occidente armato
patteggiatore e pure di quello disarmato che si attiva per salvataggi e corridoi
umanitari, ma di fatto attuale ceto dirigente del Paese. L’embargo che sta
bloccando l’acquisto del cibo, il pagamento di salari per la maggioranza d’un
popolo che in Afghanistan, volente o nolente, ci resta, non colpisce Baradar e
soci bensì milioni di persone che rischiano la fame. E’ un crimine odioso al
pari dei bombardamenti con caccia e droni che hanno mietuto vittime fra la
gente, pashtun, tajiki, uzbeki, hazara e decine di micro etnìe, mai citate e
mai sostenute da dentro e da fuori.
Le falsità che per duecentotrentasei mesi si sono susseguite nelle
nostre abitazioni erano frutto di tanta e varia propaganda dei governi coinvolti
nelle missioni. Bugie in molti casi sostenute anche da quella stampa non posta
a controllo della politica, ma sua indiretta portavoce. S’iniziò nel novembre
2001 con la Conferenza di Bonn, riunita quando ancora rombavano i motori dei
caccia dell’Us Air sull’area di Tora Bora e le bombe mettevano in fuga taliban
e probabili qaedisti lì presenti. Bonn decideva l’Afghanistan futuro, promuovendo
un inflessibile sistema presidenziale che non rifletteva le diversità politica
ed etnica del Paese. La rinascita della nazione era messa in mano a clan
tribali e l’investitura del pashtun Popalzay Hamid Karzai, fortemente voluta da
George W. Bush, dava spazio alle attività criminali sue e dei fratelli. Ahmad
Wali, narcotrafficante che la Cia fece suo referente per la provincia di
Kandahar, zona ridiventata nel tempo ad alta produzione di papavero da oppio,
Mahmoud coinvolto nelle ruberie di Kabul Bank, Qayum faccendiere delle tangenti
con e per conto di società di boss e Signori della guerra. La presunta
democratizzazione cerca spazi in un sistema senza partiti, davanti a clan, taluni
tribali, altri esplicitamente malavitosi. Alle elezioni del 2004, che danno a
Karzai la presidenza ufficiale, partecipa circa il 60% del corpo elettorale.
Dopo cinque anni l’elettorato crolla a meno del 30%, Karzai viene rieletto nonostante
palesi brogli, mentre Holbrook, il consigliere del presidente Obama, definisce la macchina
elettorale una finzione di democrazia e un elemento di distrazione di massa.
Il fallimento legislativo è ben espresso dai nomi dei
vicepresidenti scelti prima da Karzai poi dal successore Ghani: Fahim, Khalili,
Dostum – Jang salane, Signori delle
guerra – ripuliti per la politica di rappresentanza. Le loro facce sono
l’immagine d’un sistema impresentabile incentrato sul sopruso e la corruzione. Eppure
si prosegue. Il fallimento militare è quello più noto ed evidente. L’avevano costatato
i generali americani che orientavano l’inconsistente amministrazione Obama già
nel 2010, l’anno orribile per la Nato, colpita da una guerriglia riorganizzata,
che nei dieci anni seguenti s’è fregiata del ruolo di patriota, difensore del
suolo invaso da eserciti stranieri. I centotrentamila soldati della coalizione calzavano
scarponi non più adatti a calpestare un terreno infido e nel 2011 l’Isaf
stabilisce due piani: operazioni nei cieli, la guerra coi droni che mese
dopo mese ha provocato un’infinità di ‘danni collaterali’, vecchi, donne,
bambini vittime assieme ai taliban. E le spedizioni straordinarie, incentrate
su incursioni notturne nelle abitazioni civili, sequestri e deportazioni,
torture di sospettati spesso del tutto estranei alla guerriglia. Così i turbanti
hanno iniziato a reclutare giovani anche fuori dalle madrase, ragazzi non
indottrinati dal credo fondamentalista deobandi, ma dalla convinzione che l’Occidente
cattolico, protestante, ortodosso perseguitava la gente afghana. Così la Jihad
ordinata dal mullah Omar è cresciuta. Intanto al Pentagono pensavano: “Se non li scanniamo noi, facciamolo fare a
chi li odia” e lo suggerivano allo Studio Ovale. Pronta pianificazione con gli
alleati europei e proposta d’investire sull’Afghan National Forces, un esercito
addestrato dai marines e pure dai nostri incursori, Carabinieri e Col Moschin. I
numeri crescevano, fino a 350.000 unità, cresceva pure la quantità di denaro rivolta
a reparti che non reggevano lo scontro diretto, seppure meglio equipaggiati. Un
clamoroso flop di cui i bollettini delle varie Forze Nato, evitavano di
parlare, tranne venir smentite dai fatti. Diserzioni, infiltrazioni,
scoraggiamento, e una campagna acquisti che i turbanti - tornati a trafficare
oppio e riscuotere dazi su importanti vie di comunicazione, per il semplice
motivo ch’erano loro a controllare il territorio - potevano permettersi. Offrivano
ai soldati afghani anche il triplo dello stipendio, e quei giovani che
vestivano la divisa solo per far campare i familiari transitavano sul fronte opposto.
Nell’ultimo anno in cui l’esercito autoctono si sfaldava sono comparse le
rivelazione dei vertici di quell’esercito diventato fantasma: “Non eravamo così numerosi, falsificavamo i
numeri per intascare più denaro”.
La quantità di denaro che ogni anno i Parlamenti nazionali
destinavano alle missioni serviva a nutrire il gigantesco apparato militare,
logistico, amministrativo. Continuava ad alimentava un progetto già catastrofico
dopo un decennio, che è durato per altri tremilacinquecentocinquanta giorni o
giù di lì. Si trascinava dietro altre bugie o illusioni. Una riguarda le donne.
Una buona legge contro la violenza di genere venne approntata col contributo di
consulenti e giuristi occidentali, con una propria impostazione del diritto
comunque utile alle donne. Peccato che c’era chi remasse contro. Ancora lui, il
presidente benvoluto dall’Occidente, Hamid Karzai, non permise a questa norma
di finire in Parlamento perché non approntò mai il decreto presidenziale
necessario all’iter legislativo. Così la buona legge restava sulla carta. Le
attiviste della Revolutionary Association
Women of Afghanistan, impegnate nell’organizzare, fra l’altro, case rifugio
per donne abusate, testimoniavano l’impotenza: solo qualche volta le uccisioni,
gli stupri, le violenze finivano davanti a un giudice. E nei rarissimi casi di
condanna dell’assassino o violentatore gli avvocati difensori ricorrevano e
facevano cancellare la sentenza. I parlamentari, le parlamentari occidentali
avrebbero dovuto ascoltare questa triste realtà, in certi casi la conoscevano
ma per ragion di partito tacevano. Non tornava comodo a coalizioni e governi
ammettere l’ennesimo fallimento.
Eppure il danno maggiore la gente afghana, e soprattutto i suoi
giovani, l’hanno ricevuto dal nulla economico. Niente è stato fatto per creare
un’economia interna. Il ceto politico corrotto ha pensato a sé, con ruberie e
intascando proventi destinati allo Stato.
Sempre Karzai sottoscrisse con China Metallurgical Group un contratto di
sfruttamento minerario – rame, oro, ferro, litio e terre rare – per trent’anni
in cambio di tre miliardi di dollari. Quei denari non gonfiarono le casse
statali, finirono a Watan Group, una società di cui il clan Karzai era il
maggiore azionista. Le scuole aperte a ragazze donne erano in gran parte
private, frutto d’iniziative delle ong locali e straniere. Spesso sono state
ostacolate, non aiutate dai governi di Kabul, i responsabili perseguitati come
“istigatori della prostituzione” o “mercanti di minori”, mentre chi realmente
attuava simili pratiche, se ben protetto dalla politica, continuava
indisturbato la turpe opera. In tutto questo tempo le strutture ospedaliere sono
state create da Croce Rossa, Emergency, Médecins sans Frontières. Hanno lavorato e lavorano, quando non
sono finite sotto le bombe punitive statunitensi per aver curato i talebani
feriti. E’ accaduto a Kunduz nell’ottobre 2015, quarantadue morti fra pazienti,
medici, infermieri. Nella seconda decade di occupazione occidentale s’è
sviluppata una bolla edilizia, soprattutto nella capitale si costruivano
abitazioni moderne per il personale afghano impiegato nei ruoli di supporto
all’apparato straniero. Case dagli affitti costosi, che però l’élite locale,
retribuita anche con duemila dollari mensili, poteva permettersi. Parimenti gli
occidentali hanno creato la bolla degli impieghi di sostegno alla propria
presenza, per uomini e donne: interpreti, mediatori, segretari, autisti,
cuochi, camerieri e l’illusione di poter continuare a svolgere quei lavori ad
libitum. Non poteva esserci bugia più scottante. Le missioni occidentali non
sarebbero potute durare, ma producevano la chimera di protrarre nel tempo
quelle occupazioni. Anziché inserire queste figure in apparati amministrativi
locali (in genere gestiti dai clan della politica, non solo maschile, anche
talune deputate si sono spese per tali consorterie utili alle proprie carriere
e ai governi di cui sono state la maschera femminile) la macchina occidentale le
ha usate e illuse. Abbandonandole dopo il 15 agosto. Facendo piatire loro una
salvezza da possibili vendette talebane, visto che venivano bollate di
collaborazionismo. Una situazione orrenda, foriera di corse per i “visti della
salvezza” per alcuni e non per altri. Di folli inseguimenti sulle piste di voli
illusionisti e squilibrati. La promozione di corridoi umanitari, di cui ora
tanto si parla per chi sceglie di lasciare un Paese sotto la pressione di
terrore e violenze, poteva essere praticata nel corso d’un ventennio in cui si
prometteva pace e si è praticata guerra. Come purtroppo era accaduto nei
trent’anni precedenti. Ma si può evacuare un popolo? La risposta la offrono gli
stessi afghani che non possono o non vogliono allontanarsi da quella terra che
è la loro, nonostante talebani, fondamentalisti, warlords, corrotti. A queste
generazioni il futuro è scippato da mezzo secolo per il ciclo perenne di
conflitti e l’assenza di autodeterminazione economica. L’arma subdola con cui
il colonialismo di ritorno, crea soggetti subalterni, privati della dignità
economica, soggetti da nutrire o far morir di fame. Sequestrati da una realtà fallimentare
come ha fatto la coalizione Nato per vent’anni, come sta facendo il governo
statunitense da tre mesi. Unendo al disastro talebano, il proprio velenoso
disastro.
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Le splendide immagini usate nell’articolo sono di Shah Marai, fotografo dell’Afp, vittima di un attentato nel 2018 assieme ad altri nove giornalisti
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