La sentenza l’ha annunciata la sorella Mona Seif, facendo correre
la notizia sui social media: “Il giudice
è troppo codardo per divulgarla” ha scritto su Twitter e a malincuore ha confermato che ad Alaa Abdel Fattah sono
stati inflitti cinque anni di reclusione. S’accompagnano a due condanne di
quattro anni ciascuno per il blogger Mohamed “Oxygen” Ibrahim e per l’avvocato
Mohamed El-Baqer. Tutti rei di diffusione di notizie false. La stessa accusa
che ancora pende sulla testa del dotttorando Patrick Zaki, attualmente libero,
ma atteso davanti alla Corte il 1° febbraio prossimo. Le condanne in questione
non sono appellabili, l’approvazione finale spetta al presidente egiziano e un
suo assenso lascerà in galera il terzetto sino a fine 2026. Le speranze sono
flebili perché Alaa è considerato una testa calda di vecchia data. Attivo nella
Primavera di ribellione che abbatté Mubarak, l’attivista ha conosciuto altre
reclusioni, sempre per opposizione politica e attacco alla “sicurezza dello
Stato”. Quest’ultima accusa, atta a limitare la libertà di parola e pensiero, le
uniche armi usate da Fattah, appartiene alla fase iniziale della svolta
repressiva del generale golpista, che dal 2015 ha inanellato un crescendo
esponenziale portando in galera sessantacinquemila cittadini. Una prigionia con
intenti persecutori verso individui come Alaa, di cui la madre - una
professoressa, lei medesima vessata e intimidita dal regime - addita la foga poliziesca
basata su torture esplicite e sullo sgretolamento della personalità: ad Alaa è
negato l’accesso a libri e radio, gli è vietato camminare fuori dalla
cella, le uniche occasioni in cui può lasciarla sono le visite dei parenti (per
tutta una fase impedite con cavilli burocratici) e il trasloco nei tribunali
per le udienze. Sui due volti del Sisi, spietato e compassionevole, discutono
osservatori internazionali, provando a decriptare azioni e comportamenti d’una
spregevole tattica, volta a distinguere nel fronte carcerario reietti
irrecuperabili e soggetti lusingabili con una liberazione frutto d’altre
contropartite.
Involontariamente il caso Zaki potrebbe finire in
questo sporco gioco. Lui figlio d’una posizionata famiglia di religione copta,
studente modello culturalmente attivo in un contesto internazionale
occidentale, attorno al quale s’è creata un’ampia solidarietà che varca
l’orizzonte delle Ong, spesso detestate dal regime militare, ma sostenuta dalle
autorità italiane cui il Cairo guarda per i propri affari. Mentre da Roma si
guarda al grande Paese arabo per quel Pil nazionale (in questi mesi in forte
crescita) che ha nei proventi di Eni e Finmeccanica due irrinunciabili
pilastri. Su tale terreno il doppiogiochismo di Sisi è addirittura più viscido
di quello annunciato a fine dello scorso ottobre con le “carceri modello” e “la
cancellazione dello Stato emergenziale”. Iniziative propagandistiche che non
mutano la condizione generale per il detenuto tipo: soggetto marginale e
povero, di confessione musulmana, non necessariamente aderente all’Islam politico
della Fratellanza. Oppure politicizzato in quanto oppositore, militante,
sindacalista. E ancora giornalista, animatore di organismi per i diritti
civili, avvocato dei diritti. Costoro, a migliaia, riempiono da anni le
supercarceri di Tora e simili. Ciascun detenuto è un soggetto a sé stante, ma il
panorama egiziano sotto la regìa del generale Sisi ha una trama comune. Fattah
e Zaki sono vittime della stessa repressione. Come Zaki e Regeni, pur con l’irreparabile
gravità dell’omicidio del ricercatore friulano, sono stati l’obiettivo d’un
sistema violento e sanguinario sul cui operato Sisi deve rispondere. Flettersi a un possibile
ricatto di salvare il primo e dimenticare il secondo, come ha mostrato di voler
fare il nostro ministro degli Esteri, è una mossa insostenibile, un gesto di
collusione con un assassinio di Stato in cambio d’una liberazione cui non deve
ambire solo Zaki, ma Fattah, Ibrahim, El-Baqer e migliaia d’incatenati dai
militari d’Egitto.
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