L’arena del sangue è ancora una volta una moschea. Sciita. A
Kunduz. I brandelli di ottanta corpi, il manto rosso che tutto avvolge come
un’Āshūrā che onora il martirio di al-Husain, non stanno mimando una
commemorazione. E’ tutto tragicamente vero. Per l’ennesima volta, sotto la
regìa dell’Isis Khorasan che solo una settimana fa aveva colpito nella capitale
un’altra moschea (Eid Gah). Carneficine che si susseguono, come nel 2018 quando
sul sangue degli afghani jihadisti dell’Isil e taliban si disputavano
l’egemonia del territorio. Ora che da due mesi i turbanti di Akhundzada,
Baradar, Yaqoob, Haqqani hanno formato il governo provvisorio del secondo
Emirato, i fanatici del Califfato continuano a martellare con kamikaze e autobombe
la quotidianità afghana, per ammonire tutti che non saranno i nuovi padroni a
garantire ordine ed esistenza sicure. Per nessuno. Chi è giunto dopo la
terrificante esplosione nel luogo di culto ha avuto lo sguardo scioccato dal
carnaio. Giovani e vecchi allungati in un lago di sangue, corpi frantumati che
urlavano dal dolore domandando aiuto. E cadaveri sfranti, più o meno
riconoscibili.
Nonostante il prodigarsi dei soccorritori per sostenere i feriti,
questi sembravano non finire mai “era
difficile trasportare tutti nelle strutture sanitarie” dichiaravano alcuni
testimoni. E chi ha monitorato negli anni il panorama di quella città, ricorda
l’ospedale di Medici senza Frontiere bersagliato
dai bombardieri americani durante il loro conflitto coi taliban. Sa che le
uniche eccellenti strutture, create dalle Ong, sono state ridimensionate. Nella
rilanciata corsa della morte è sempre la gente comune a essere sacrificata o
rinnovare lutti fra i familiari sopravvissuti. Ma la triennale battaglia fra i
talebani dell’odierno Emirato e i miliziani d’un Califfato spettralmente
sognato, mostra anche assalti rivolti a figure di rango. L’attentato della
moschea di Kabul puntava al ministro dell’Informazione e Cultura Zabihullah
Mujahid, lì riunito insieme a parenti e amici in memoria di sua madre. Se
questo scontro, anche simbolico, è tenuto in vita da strutture militari
organizzate dall’Isis-K oppure, come talune voci sostengono da “cellule
dormienti” del jihadismo locale, non cambia molto la sostanza. Certo i
turbanti, turbati nell’impossibilità di prevenire strazianti incursioni
esplosive, cercano di minimizzare; però cinque, ottanta o centosettanta morti,
non mutano la sostanza del lugubre cimitero afghano che viene riproposto.
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