Il tiro a bersaglio di Tayouné - la zona semicentrale
di Beirut controllata, come dimostra la sparatoria di ieri, armi alla mano dalla
comunità cristiano-maronita - è un’ulteriore escalation dello Stato fallito
libanese. Nessun prodromo di rinnovata guerra civile, c’è da sperarlo
vivamente, ma che la vita a Beirut e dintorni abbia perso qualsiasi connotato
di civiltà è un dato di fatto. Le uccisioni dei manifestanti sciiti da parte di
cecchini maroniti (sebbene le Forze Libanesi, partito guida dello schieramento,
smentiscano, i sospetti sono tanti) ripropongono una palese realtà: la
pace-armata fra etnìe e confessioni, la spartizione dei poteri, di zone della
capitale e del Paese mantenendo la tossica presenza di clan familiari che tutto
decidono sulla testa di quattro milioni di cittadini-sudditi che possono solo
accettarne la protezione, ha fatto il suo tempo ma non ha alternative. Anche
perché le quattro entità della nazione svuotata d’identità - sunniti, sciiti,
maroniti, drusi - non vogliono cambiar passo. Non vogliono perdere un briciolo
del potere acquisito, anche quando questo è svuotato di tutto, alla maniera dei
bancomat che rilasciano appena qualche banconota, come le scassate casse del
Tesoro privato di fondi da un ceto politico corruttibile e corrotto, come il
buio che segna le notti beirutine dalle Corniche all’entroterra per il collasso
energetico. A un dramma che fa rischiare la fame, non solo ai campi profughi
tuttora presenti all’interno del tessuto urbano della capitale – ricordate
Chatila? è sempre lì e ai 400.000 palestinesi si sono aggiunti due milioni di
siriani – ma nella stessa Hamra o nel teatro degli scontri di queste ore, Aïn
el-Remmané, fatta di alti condomini, costruiti ex novo dopo le distruzioni degli
anni Ottanta, lo spettro che può ritornare.
Finora a Beirut era cambiato l’uso delle armi,
diventate leggere sia fra le milizie di Nasrallah, sia per quelle di Geagea. Che
s’accusano reciprocamente in merito a chi abbia fatto fuoco in questa circostanza,
ma che circolano palesemente coi kalashnikov bene in vista. Eppure armamenti quasi
atomici, come le 2.750 tonnellate di ammonio stipate per anni in un hangar e
brillate il 4 agosto 2020, che hanno sbriciolato i quartieri a ridosso del più
bel porto orientale del Mediterraneo, portandosi dietro oltre duecento
cadaveri, seimila feriti sanguinanti e lasciando decine di migliaia di
disgraziati senza un tetto, rappresentano una realtà che fa del Libano un
fronte di guerra. Simile a quello voluto da Israele quando varca i confini di
terra, aria, acqua oppure quando i mukhabarat siriani tramano con attentati
come quelli che polverizzarono Hariri padre e alcuni suoi ministri. La via per
un Libano diverso da quello conosciuto nell’ultimo cinquantennio che era un mix
di bordello post-coloniale, un paradiso fiscale per bancarottieri, un luogo di
speculazione e intrighi finanziari, una casamatta del conflitto mediorientale, la
culla d’una sanguinosissima guerra civile, è fallita. Il Libano stesso è uno
dei vari Stati ammuffiti che il colonialismo di ritorno palpeggia cercando una
soluzione che non sa offrire, mentre i miliardari regionali suoi alleati cercano
di plasmarne a piacimento l’orizzonte per trarne vantaggi più o meno espliciti.
Resta una parvenza di comando in chi guida lo Stato
fantasma, ultimamente Najib Mikati, proveniente dall’ennesimo clan affarista:
un fratello fondatore dell’Arabian
Construction Company, una delle maggiori società edili mediorientali con
sede ad Abu Dhabi, e lui stesso, il premier Najib, collocato da Forbes in testa ai più ricchi magnati
libanesi. Tanto denaro per qualcuno e stenti per un popolo sempre più misero e
disperato sia che preghi in moschea sia in cattedrale. Poi c’è la protesta di
ieri, militanti di Amal ed Hezbollah che sfilano verso il Palazzo di Giustizia
e vogliono fermare le indagini del magistrato Tarek Bitar sull’esplosione del
porto. Lui è descritto fuori da logiche di affiliazioni e schieramenti. Un
giudice diverso da Fadi Sawan, che l’aveva preceduto, ed era stato contestato
dai raggruppamenti sciiti perché cresciuto all’ombra della comunità maronita,
passando da giudice istruttore a Baabda al Tribunale militare quale esperto di
terrorismo. Ma anche Bitar rivolto l’attenzione dell’inchiesta sui ministri
Zaiter e Khalil. Il primo vicino ad Amal, con incarichi di responsabile di vari
dicasteri: Difesa, Agricoltura, Lavori Pubblici, Industria, Affari Sociali. Il
secondo amicissimo e sodale di Nabih Berri, presidente del Parlamento libanese
oltreché incontrastato raìs del Movimento Amal, ancora oggi a ottantatré anni
suonati. Così l’attivismo sciita è sceso in piazza per azzerare un’indagine che
addita taluni politici come irresponsabili, e i cecchini maroniti hanno cercato
e trovato il morto. Anzi, i morti. Anche Hezbollah ha estrapolato le sue armi,
e la faida più che lotta politica prosegue in una Beirut amara e spettrale.
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