Mentre il G20 a trazione Mario Draghi cerca nelle Nazioni
Unite un anello per tenere aperto il canale con l’Afghanistan talebano, vuol
trattare col suo governo senza riconoscerlo, elargendo una mancetta da un
miliardo di euro di provenienza Ue, il ministro degli Esteri di Kabul - che coi
rappresentanti europei e americani s’è incontrato a Doha - decuplica l’importo.
Amir Khan Muttaqi ha riproposto l’azzeramento delle sanzioni che da due mesi
bloccano 9.5 miliardi di dollari. Solo liberando quella cifra il Paese,
soffocato da mancanza di liquidità, inizierebbe a respirare. Il nodo scorsoio è
posto direttamente alla gola dei dipendenti dell’amministrazione statale,
rimasti senza stipendio, ma senza denaro liquido nessuno spende e l’intera malandata
economia nazionale resta asfittica, in primo luogo nelle città e specie per gli
approvvigionamenti di prima necessità, naan
compreso. Così più realistica che pietistica appare la dichiarazione del
turbante con funzione di rapporti esterni quando afferma che indebolire
l’attuale governo afghano non è strategicamente utile a nessuno, soprattutto
per far fronte alle due emergenze indissolubilmente legate alla strozzatura
economica: sicurezza interna e flussi migratori. La prima rientra nella grande
richiesta statunitense ai taliban sin dalla firma dell’accordo qatarino:
impedire il radicamento in loco di radicalismi fondamentalisti, oggi targati
non più Qaeda bensì Isis. Una presenza che gli studenti coranici si sono
serbati in seno e che facendo leva su spaccature e dissidenze è diventata una
coriacea concorrenza jihadista in terra afghana. Accanto alla geostrategia
militare la questione mette in fibrillazione anche la geostrategia finanziaria,
quella cui guardano gli investitori d’ogni risma che sotto i precedenti governi
filoccidentali facevano affari, principalmente coi prodotti del sottosuolo. Nel
settore i cinesi sono in prima fila, e per questioni diverse ma speculari un
territorio tenuto sotto controllo – oggi dai coranici, vista la dissoluzione
dell’esercito sostenuto dalla Nato – fa oggettivamente comodo alle potenze
globali.
Però i sessantamila miliziani dell’assalto a Kabul,
saliti negli ultimi mesi ai duecentomila attuali, tanti ne quantificano gli
analisti delle armi, non sembrano garantire uno Stato senza esplosioni e lutti,
visto come vengono ‘bucati e beffati’ dallo jihadismo concorrente. Se in esso
si stiano muovendo anche cellule di kamikaze uiguri che s’addestrano dietro l’Hindukush
per poi rivolgere le esplosioni anche nello Xinjiang aumenta l’apprensione
cinese. Sarà anche per questo che Pechino ha snobbato il recente invito del
G20, accettando di duettare il 20 ottobre a Mosca coi russi e il Grande
Fratello talebano di stanza in Pakistan. Un summit ristretto e sostanzioso sulle
necessità afghane, al quale l’America della Casa Bianca e del Pentagono non
faranno mancare i propri osservatori. L’emergenza
dei flussi migratori, quelli dei grandi numeri, può andar oltre l’affanno di
fuga cui abbiamo assistito nelle settimane seguenti il 15 agosto. Chi tuttora chiede
di riparare all’estero per i legami coi pregressi lavori a favore dei governi
dismessi, per timori di vendette, per dissenso a un regime oppressore verso
tutele e diritti grazie ai tanto sperati ‘corridoi umanitari’ e a
un’accoglienza organizzata potrebbe ricevere anche il lasciapassare talebano,
ma è il molto più cospicuo flusso di migranti per fame – conosciuti nelle rotte
balcanica e libica – a preoccupare membri del G20 e ancor più i governanti
della Fortezza Europa. Sia i possibilisti dell’accoglienza, sia i costruttori
di muri che con le ultime mosse (la lettera dei ministri dell’Interno di
Austria, Bulgaria, Cipro, Repubblica Ceca, Slovacchia, Danimarca, Grecia, Ungheria,
Polonia, Estonia, Lettonia, Lituania) hanno ampliato consistenza e puntano a
influenzare Bruxelles.
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