Il processo che s’avvìa a Roma per l’assassinio di
Giulio Regeni - compiuto al Cairo dopo il noto rapimento del 25 gennaio 2016 e
la successiva settimana di torture da parte delle Forze di Sicurezza egiziane -
ha quattro imputati: un generale (Sabir Tariq), tre colonnelli (Usham Helmi,
Mohamed Ibrahim, Abdelal Sharif). Di fatto contumaci. A loro i magistrati italiani
non hanno potuto notificare gli atti d’accusa poiché l’Egitto non ha mai
fornito i recapiti domiciliari. Un particolare che potrebbe immediatamente
produrre un rinvio del processo stesso. Un passo significativo ha compiuto
l’attuale governo italiano, rispetto alle titubanze dei quattro che l’hanno
preceduto: costituirsi parte civile contro gli assassini. Che per come la
vicenda s’è messa sin dai primi giorni con omissioni, falsità, depistaggi da
parte delle autorità egiziane rappresenta un’opposizione alla volontà del
regime del Cairo di coprire e difendere quei servitori d’uno Stato che appare
il reale mandante dell’omicidio. Un’azione criminale che non è certo un fatto
privato. Assume un respiro internazionale perché vede vittima il cittadino di
un’altra nazione che in Egitto svolgeva un lavoro professionale - una ricerca
su lavoratori e sindacati locali - e che per questo è stato pedinato, spiato,
incastrato, prelevato con la forza sino alle tragiche conseguenze. Simili
trattamenti sono stati riservati a migliaia di egiziani subito dopo la presa
del potere da parte del generale al Sisi già dall’agosto 2013. Un’escalation
rivolta ad avversari e a ogni soggetto ostacoli col proprio operato politico,
sociale, professionale (dunque attivisti, giornalisti, avvocati, docenti) la
restaurazione autoritaria attuata dalla lobby militare e dai suoi sostenitori interni
ed esterni.
Un piano tuttora in corso che ha sbattuto in galera oltre
sessantamila persone, ha dato una parvenza “legale” a processi infiniti – come
quello cui è sottoposto Patrick Zaky – mirati a svilire fisico e morale dei
detenuti e produrne, com’è accaduto a nomi anche noti del panorama politico e
pubblico interno, il decesso. Per ragioni organiche di sopravvenuto stress, per
malattie non curate, per induzione al suicidio. Tale meccanismo criminale produce
effetti deleteri sulla stabilità emotiva e psicologica dei cittadini che temono
di finire nell’infernale rete di sospetti, vessati dall’accusa di tramare
contro “la sicurezza nazionale” e triturati da una carcerazione infinita. Poiché
se si reclamano violazione di diritti e di libertà personali si può essere
accusati di terrorismo, in pochi hanno denunciato le sparizioni di amici e
parenti, sparizioni che dopo anni paiono definitive. Aver ritrovato il cadavere
martoriato di Giulio ha dato adito, inizialmente, all’ipotesi d’un complotto
rivolto contro Sisi in persona. Col passare del tempo, con l’orientamento preso
dai vertici dello Stato egiziano a difesa dei suoi killer, quell’ipotesi si
dimostra una boutade. Forse fatta circolare dagli stessi apparati repressivi,
cui la questione è “sfuggita di mano” e da lì la pasticciata sequela di bugie,
montature, ulteriori assassini. Per accreditare un presunto rapimento di Regeni
a scopo di rapina, i mukhabarat hanno
passato per le armi cinque sprovveduti malviventi, a loro magari noti oppure
no. Anche questa è un’ipotesi, mancano prove. Anche perché l’Egitto ha sempre
impedito ai procuratori romani, durante le proprie missioni ispettive al Cairo,
d’indagare adeguatamente su tutti i risvolti del caso Regeni e degli intrighi
conseguenti.
Non c’è, dunque, solo una
mancanza di collaborazione. Unanimemente magistratura e politica del grande
Paese arabo voltano le spalle alla richiesta di verità invocata non tanto da
familiari, amici, attivisti dei diritti, ma dalla stessa nazione italiana.
Finora quest’ultima aveva invocato cooperazione, evitando gli strappi di gesti
clamorosi quali il ritiro dell’ambasciatore premessa di rotture diplomatiche.
La linea economica, proficua per gli scambi fra i due Paesi, e la rinnovata linea
geostrategica nel Mediterraneo orientale e in Medioriente che hanno investito
il chiacchierato regime del Cairo di compiti di supporto militare di primo
piano, hanno prodotto una linea morbida verso al Sisi. Accolto in tanti
consessi dove l’Italia e l’Ue puntano a mediare su temi caldissimi: stabilizzazione
di aree contese in sistemi implosi come la Libia post-Gheddafi; sicurezza e difesa
dagli attacchi jihadisti; controllo dei flussi migratori. Da qui sorrisi,
forniture d’armi, investimenti nei progetti faraonici come il raddoppio di Suez
e la New Administrative Capital, che viaggiano sul filo di prestiti con
interesse e interessi di capitali anche occidentali, un via vai di denaro
impossibile da intralciare con controversie giuridiche. Ecco che il volto
affaristico di Sisi e con Sisi può mettere fuori gioco ogni altra questione. A
cominciare da diritti calpestati, violenze perpetrate e perpetuate, sangue
versato. E non sia mai che nello strappo impossibile finisca anche l’altro
sfregio all’Italia riguardante la detenzione di Zaky. Potrebbe il regime del
Cairo ammorbidirsi verso lo studente bolognese in cambio d’un Regeni lasciato
senza giustizia? Forse Sisi potrebbe, e noi?
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