Gridano contro il
premier Pashinyan, i cittadini infuriati che hanno assediato i propri
rappresentanti fin dentro il Parlamento armeno. Ma per il primo ministro
l’accordo firmato con l’Azerbaijan sotto la supervisione di Mosca è l’unica
soluzione praticabile. Anche a seguito della critica condizione militare sul
campo di battaglia, dove i loro morti in divisa superano abbondantemente le
mille unità. Del resto, dopo la perdita della città di Shusha, i margini di
manovra per l’esercito di Yerevan erano minimi. Forti e ben equipaggiate sono
apparse le Forze armate di Baku, non a caso negli ultimi dieci anni Aliyev ha
investito cinque volte i miliardi utilizzati dall’Armenia per armamenti.
Materiale che per entrambi proviene da forniture russe, sebbene l’Azerbaijan
abbia potuto spendere ulteriori ‘fondi energetici’ per la tecnologia dei droni
turchi e israeliani. Ma al di là di quel che s’è visto nelle sei settimane di battaglie,
e di tregue fragilissime, il conflitto del Nagorno Karabakh non poteva durare
perché i padrini dei due contendenti decidevano altro. Solo l’infatuazione
patriottica poteva far credere agli armeni che Putin si sarebbe preso in carico
la loro difesa sulla base della radice cristiana delle chiese armena e ortodossa.
Al capo del Cremlino fa gioco tenere buoni rapporti col patriarca Cirillo I, ma
al di là di combattere il fondamentalismo islamico quando serve e fa comodo, in
Cecenia più che in Siria, non si lascia trascinare in conflitti d’orientamento religioso.
E l’Islam sventolato dal mallevadore degli azeri, Recep Tayyip Erdoğan, ha più
contorni geopolitici che intenti ideologico-confessionali. Nella sistemazione e
ripartizione del Medioriente siriano i due capi di Stato si sono minacciati e
poi abbracciati attuando una reciproca convenienza nel lasciare Asad al suo
posto e ripulire il Rojava dai combattenti kurdi. Si sono poi misurati nel
Mediterraneo libico dividendosi su chi deve governare lo scatolone di petrolio,
ma tenendosi bordone nel rintuzzare le iniziative occidentali, francesi e
italiane, egualmente rivolte a sfruttare la Libia per i propri interessi
energetici. Nel Caucaso, dove passano pipeline ed esistono Paesi dai copiosi
giacimenti di gas e pure di petrolio, i due autocrati molto più realisti e
concreti di sedicenti statisti europei hanno valutato che spartirsi ruoli e
bottini conviene assai più che mordersi a vicenda. Anche perché ciascuno conta
un numero maggiore di nemici rispetto agli alleati. Per ora è così. Non è detto
che duri. Ma non poteva certo essere il ‘giardino montuoso’, enclave contesa da
un secolo, a far cadere il castello degli accordi economici e tattici
tessuti nell’ultimo quinquennio.
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