Il Parlamento turco ha approvato il dispiegamento di
proprie truppe nelle aree di confine del Nagorno Karabach, non è ancora certo
se entreranno nell’enclave affiancando come ‘osservatori di pace’ i duemila
militari di Mosca che Putin aveva inviato in quel territorio nella stessa
nottata in cui i governi armeno e azero firmavano l’accordo di cessate il fuoco
da lui stesso suggerito. Dipenderà dai patti che i potenti supervisori si
daranno nei prossimi giorni. Comunque il presidente Erdoğan non voleva lasciare
all’omologo russo, regista delle trattative fra i contendenti, l’unico
vantaggio di schierare le proprie pedine in una zona sensibile fuori dai
confini statali. Mosca e Ankara praticano da un quinquennio questa tattica,
applicata sullo scenario siriano e libico, utilizzando milizie mercenarie nei
momenti di battaglia e propri militari nei presidi di pace e pattugliamento,
che restano occupazioni di fatto di territori. Pur noto per l’attivismo decisionista
Erdoğan non perde il contatto con istituzioni e passaggi previsti dalle leggi,
ottenendo peraltro un consenso trasversale fra varie componenti politiche
interne. Sull’ultima crisi dell’enclave contesa da un secolo da Armenia e
Azerbaijan, il presidente turco coglie l’occasione di accusare l’inconcludente
politica estera del cosiddetto gruppo di Minsk (in cui è presente la stessa
Russia, Francia e Stati Uniti) per aver congelato una situazione instabile per
circa un trentennio, dopo il conflitto conclusosi nel 1994 con l’occupazione
armena di vari distretti attorno al Nagorno, prima con l’esercito poi con nuovi
insediamenti di popolazione. Ora queste aree verranno restituite al governo di
Baku assieme a un pezzo del Karabach.
Come abbiamo visto dal mese di settembre, quando è stato avviato
un nuovo scontro in maniera peraltro velleitaria da parte armena che ha pagato un’impreparazione
militare, la Russia putiniana si è smarcata dall’Osce e ha fatto intendere a
Erevan una sorta di protettorato ma non s’è impegnata in nessun intervento
diretto. L’ingenuità del primo ministro Pashinyan - oggi autocritico, oltreché
criticato e contestato in patria - e il revanscismo del nazionalismo armeno
hanno scelto di attaccare gli avversari che hanno risposto militarmente in
maniera più adeguata, anche per le maggiori risorse, ad esempio sul piano missilistico.
Le battaglie di artiglieria terrestre e le azioni coi droni hanno seminato
morte fra i civili, di entrambe le comunità, con peggiori conseguenze fra le
truppe soprattutto armene che reclamano circa duemila vittime. Ma accanto ai
danni delle bombe su abitazioni e beni s’aggiungono quelli causati dalla rabbia
di chi abbandona le zone perdute. In questi giorni ci sono testimonianze di
armeni che pur di non lasciare case agli atavici nemici, le bruciano. E
distruggono anche altri beni intrasportabili. E’ quella linea segnata dal fuoco
di pogrom, persecuzioni, vendette, riconquiste lunga secoli, che il
nazionalismo richiama per non sanarla mai. Inutili sembrano anche le
conclusioni dei padrini-mediatori che invocano “la collaborazione fra le comunità per l’interesse di tutti”. Mentre
sono già in viaggio decine di migliaia di profughi volontari che s’allontanano
da quello che per trent’anni è stata la “loro” terra, poiché non si fidano del
futuro. La nazione armena rischia di vedersi invasa da troppa gente che non
riuscirà facilmente a ricollocare nei propri confini. E le ferite non si rimarginano.
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