lunedì 30 novembre 2020

Iran, tre nodi per mesi caldissimi

Sull’emerita salma di Mohsen Fakhrizadeh, fino al giorno dell’attentato letale guida suprema del nucleare iraniano, pendono almeno tre nodi irrisolti del presente geopolitico della Repubblica Islamica. Il primo: lo squilibrato ‘equilibrio internazionale’, che ha già lacerato l’Iran con l’assassinio del generale Soleimani. Al suo omicidio Teheran ha deciso di non rispondere, le scaramucce su ambasciata e obiettivi minimi statunitensi in terra irachena sono state, appunto, schermaglie. Il secondo nodo si lega proprio alla linea da contrapporre alle sanguinarie azioni nemiche. Moderati e pragmatici sostengono una dignitosa lontananza dall’escalation della risposta ‘colpo su colpo’, e il presidente Rohani non intende applicare la norma decisa di recente da un Parlamento a maggioranza conservatrice: sospendere i controlli degli ispettori Aiea. Collegata a una ripresa dell’arricchimento dell’uranio fino alla soglia del 20% (finora non superava il 4,5%) in virtù della mancata cancellazione delle sanzioni economiche contro il Paese. I falchi meditano vendette non solo da proclamare, sebbene la voce di Qalibaf, presidente del Majles, che reclama una “reazione forte” dello Stato, e la tempestosa: “Piomberemo come tuoni sulla testa dei responsabili dell’omicidio di questo martire” annunciata da Hossein Dehghan, consigliere della Guida Suprema, appaiono più proclami utili alla propaganda che ciascuno inizia a farsi per le presidenziali di giugno, che minacce da attuare a breve. L’unica certezza è l’oggetto della minaccia: Israele, da più parti indicato come il regista e l’esecutore, tramite il suo super braccio armato del Mossad, dell’assassinio del noto professore.

Qui subentra il terzo nodo, di cui discutono gli analisti, ma anche la cittadinanza iraniana che, laica o clericale, riformista o ultraconservatrice, non ama ingerenze esterne, e soffrendo d’una carenza di sicurezza si chiede come si sia potuta materializzare quest’ulteriore operazione paramilitare sul suolo patrio. Una prima versione dell’assalto indicava un commando d’una dozzina di elementi dispiegati per far detonare l’autobomba, sparare sull’auto condotta dallo stesso Fakhrizadeh e sulle due di scorta. Alcuni cecchini erano in auto, altri su moto. Poi è stata diffusa anche una tesi funambolica: i colpi sarebbero partiti da un mitra robotico piazzato sull’auto civetta e azionato da chissà dove, un apparecchio che ha realizzato da terra la funzione dei droni nell’aria. Ipotesi avvincente, ma tutt’altro che provata e diffusa da un’agenzia prossima ai Pasdaran, la struttura nata dalla Rivoluzione Islamica e cresciuta con la cosiddetta “gioventù del fronte” che ha salvato la nazione dalle mire espansionistiche di Saddam Hussein. La milizia dei martiri sacrificatisi per la ‘creatura’ di Komeini, che nei decenni ha costituito l’asse portante del potere degli ayatollah sul versante della forza, venendone ripagata con lo strapotere economico di molte bonyad, fondazioni poste sotto il suo controllo, e con una lobby divenuta partito politico. Eppure quest’apparato tanto potente nella regione, col sostegno dato a nazioni e raggruppamenti alleati in Libano, Siria, Yemen, influente nella politica interna, non riesce a offrire garanzie di copertura del proprio territorio. La forza militare iraniana è indubbiamente cresciuta sul versante della tecnologia balistica di razzi e droni, però su software e cyber apparati, preparazione degli agenti sotto molteplici punti di vista, reti d’infiltrazione i Servizi statunitense e israeliano vantano cospicui margini di maggiore efficienza. 
E a un’esperienza di lunga data aggiungono risorse considerevoli, ad esempio quando occorre finanziare operazioni in territorio nemico. Un sabotaggio è stato registrato nello scorso luglio all’impianto di Fordow, struttura sotterranea di arricchimento dell’uranio sita a 32 km dalla città santa di Qom. E’ il secondo impianto controllato dall’Organizzazione iraniana per l’energia atomica insieme alla centrale di Natanz. In un reparto s’è sviluppato un incendio seguito a un’esplosione, un’azione rivendicata da sedicenti “Ghepardi per la patria”. I servizi interni hanno riconosciuto responsabilità derivanti da una pirateria informatica. Anni fa un libro, scritto da cronisti che avevano prossimità con agenti del Mossad, rivelava come quest’agenzia per le proprie azioni non si fidava di usare ‘esterni’, però grazie a copiosi fondi pagava delatori; acquisiva case sicure dove vivere per settimane o mesi mentre venivano preparati e attuati i piani di sabotaggio. Proprio in Iran, ai tempi della dinastia Pahlavi, l’Intelligence israeliana godeva di coperture della Savak, successivamente i referenti del Mossad possono essere diventati i Mujaheddin del popolo, un gruppo d’opposizione che virò verso il terrorismo. Nei decenni quest’organizzazione, sempre più distante dal suo programma politico laico, ha goduto dei finanziamenti della Cia nei vari uffici sparsi all’estero, iniziando dal presidio parigino della propria ispiratrice: Maryam Rajavi. Proprio gli Stati Uniti, protettori d’una storica loro base operativa in Iraq (camp Ashraf) ne hanno direzionato una parte nell’Albania americanizzata. Coinvolgendo l’Unhcr, alcune migliaia di miliziani sono finiti in una struttura vicina a Durazzo, Manëz. Mujaheddin o meno, chi aiuta i colpi d’Israele sa muoversi in terra iraniana e svergogna la “sicurezza” di Teheran. Fra i tre nodi presenti nell’irrisolto geopolitico e strategico iraniano questo risulta il più inquietante. 

 

 

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