Terrorizzare la gente, affossare il sistema attuale, con
Ghani, e quello futuro, che può imbarcare i talebani. Il programma sfascista
dello Stato Islamico del Khorasan in Afghanistan prosegue il percorso di
sangue. In un mercato povero presso Bamiyan, con contadini a esporre prodotti
della terra e piccoli mercanti con altre merci esplodono due ordigni. Il
gemellaggio del terrore fa quattordici vittime. I superstiti si chiedono se
avranno la forza della necessità e della disperazione di tornare nello stesso
luogo, dopo che mani pietose avranno portato via i poveri resti, la polvere
avrà assorbito il sangue, qualcun altro avrà gettato secchiate d’acqua per
cancellare le tracce dell’orrore, che invece sedimenta nell’anima d’una popolazione
sempre più colpita, turbata, sbandata, abbandonata. In contemporanea, in una
conferenza a Ginevra, i sessanta Paesi donatori meditano di ridurre i
finanziamenti a Kabul. Nel 2012 erano 16 miliardi di dollari, nel 2016 15, ora
se ne propongono 12 miliardi. Oltre il 50% del budget nazionale proviene dagli aiuti
internazionali. Sono i piani con cui la “generosa” Comunità internazionale
tiene per il guinzaglio l’economia di nazioni fallite, rendendole incapaci di
ricevere finanziamenti produttivi esteri e al contempo avviare un'emancipazione
economica. Inutile aggiungere che le quote di sostegno sono dirette, solo
nominalmente, ai bisogni della gente.
In più dall’inizio dell’operazione di morte definita ipocritamente Enduring Freedom, e d’ogni successiva missione
Nato, le nazioni occidentali che puntellano l’occupazione l’accompagnano con le elargizioni
della cooperazione internazionale. Le due voci di spesa vengono finanziate in
contemporanea dalle Istituzioni, in Italia funziona così. Peccato che anche
buona parte di questi fondi venga gestita dal governo locale, dalla sua
politica e dai suoi uomini corrotti che ingrassano un sistema e poco o nulla
fanno giungere alle ong oneste operanti nelle province afghane. Ora
l’accresciuta instabilità in varie aree fa parzialmente chiudere i
rubinetti ai donatori. Secondo Mike Pompeo, ancora per poco Segretario di Stato
Usa: “La scelta fatta coi negoziati di
pace influenzerà la dimensione e gli orientamenti dei futuri sostegni
internazionali”. Con la riduzione delle truppe in loco (da gennaio si
ritireranno 2.500 militari americani) il blocco occidentale vuol dare un
segnale ai talebani diminuendo gli aiuti, proprio a seguito delle aggressioni
proseguite nei mesi passati. La posizione d’un rappresentante dell’Unione Europea
(Borrell Fontelles) a Ginevra va in questa direzione: “Per un vero processo di pace la violenza deve fermarsi. Ogni tentativo
di rilanciare un Emirato islamico avrebbe un impatto negativo per un nostro
coinvolgimento”.
Diplomaticamente subalterno il ministro degli Esteri afghano Hanif Atmar dichiara: “Gli insorti devono ascoltare le domande
poste dal mondo intero”. Figurarsi se i talebani ascolteranno lui, vassallo
del fantoccio Ghani… I colloqui inter afghani nel loro difficile percorso
trovano un ostacolo proprio attorno a figure come l’attuale presidente che
vorrebbe reiterare una presenza politica, mentre i turbanti sono disposti a
interloquire e rapportarsi solo con volti nuovi. I garanti occidentali
rilanciano, sostenendo l’impossibile: il governo di Kabul dovrà vigilare su
stabilità e sicurezza. Lo dicono per dire, conoscono tutti i
limiti di quest’affermazione, ma la lanciano egualmente. I dialoghi stanno proseguendo
come un colloquio fra sordi: ciascuno tiene una posizione sgradita ad altri e
l’impasse è perfetta. Dopo la notizia del taglio dei fondi Ashraf Ghani ha
intrapreso il consueto piagnucolìo. Afferma che i quattro miliardi in meno priveranno – ma guarda un po’ – la promozione dell’istruzione e la difesa
dei diritti umani, minando le condizioni di vita e addirittura il suo recente
piano sull’anti-corruzione. Detto da lui, al vertice da sei anni, contestato
all’elezione del 2014 e nuovamente in quella del 2019 per brogli, sembra una
gag. Diventa un assist, servito sul piatto d’argento, alla delegazione talebana
che s’è affrettata a far sapere come i fondi esteri sarebbero più sicuri se
consegnati a strutture popolari o, ovviamente, a loro stessi.
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