mercoledì 25 novembre 2020

L’Afghanistan da sgretolare

Terrorizzare la gente, affossare il sistema attuale, con Ghani, e quello futuro, che può imbarcare i talebani. Il programma sfascista dello Stato Islamico del Khorasan in Afghanistan prosegue il percorso di sangue. In un mercato povero presso Bamiyan, con contadini a esporre prodotti della terra e piccoli mercanti con altre merci esplodono due ordigni. Il gemellaggio del terrore fa quattordici vittime. I superstiti si chiedono se avranno la forza della necessità e della disperazione di tornare nello stesso luogo, dopo che mani pietose avranno portato via i poveri resti, la polvere avrà assorbito il sangue, qualcun altro avrà gettato secchiate d’acqua per cancellare le tracce dell’orrore, che invece sedimenta nell’anima d’una popolazione sempre più colpita, turbata, sbandata, abbandonata. In contemporanea, in una conferenza a Ginevra, i sessanta Paesi donatori meditano di ridurre i finanziamenti a Kabul. Nel 2012 erano 16 miliardi di dollari, nel 2016 15, ora se ne propongono 12 miliardi. Oltre il 50% del budget nazionale proviene dagli aiuti internazionali. Sono i piani con cui la “generosa” Comunità internazionale tiene per il guinzaglio l’economia di nazioni fallite, rendendole incapaci di ricevere finanziamenti produttivi esteri e al contempo avviare un'emancipazione economica. Inutile aggiungere che le quote di sostegno sono dirette, solo nominalmente, ai bisogni della gente.

In più dall’inizio dell’operazione di morte definita ipocritamente Enduring Freedom, e d’ogni successiva missione Nato, le nazioni occidentali che puntellano l’occupazione l’accompagnano con le elargizioni della cooperazione internazionale. Le due voci di spesa vengono finanziate in contemporanea dalle Istituzioni, in Italia funziona così. Peccato che anche buona parte di questi fondi venga gestita dal governo locale, dalla sua politica e dai suoi uomini corrotti che ingrassano un sistema e poco o nulla fanno giungere alle ong oneste operanti nelle province afghane. Ora l’accresciuta instabilità in varie aree fa parzialmente chiudere i rubinetti ai donatori. Secondo Mike Pompeo, ancora per poco Segretario di Stato Usa: “La scelta fatta coi negoziati di pace influenzerà la dimensione e gli orientamenti dei futuri sostegni internazionali”. Con la riduzione delle truppe in loco (da gennaio si ritireranno 2.500 militari americani) il blocco occidentale vuol dare un segnale ai talebani diminuendo gli aiuti, proprio a seguito delle aggressioni proseguite nei mesi passati. La posizione d’un rappresentante dell’Unione Europea (Borrell Fontelles) a Ginevra va in questa direzione: “Per un vero processo di pace la violenza deve fermarsi. Ogni tentativo di rilanciare un Emirato islamico avrebbe un impatto negativo per un nostro coinvolgimento”.

Diplomaticamente subalterno il ministro degli Esteri afghano Hanif Atmar dichiara: “Gli insorti devono ascoltare le domande poste dal mondo intero”. Figurarsi se i talebani ascolteranno lui, vassallo del fantoccio Ghani… I colloqui inter afghani nel loro difficile percorso trovano un ostacolo proprio attorno a figure come l’attuale presidente che vorrebbe reiterare una presenza politica, mentre i turbanti sono disposti a interloquire e rapportarsi solo con volti nuovi. I garanti occidentali rilanciano, sostenendo l’impossibile: il governo di Kabul dovrà vigilare su stabilità e sicurezza. Lo dicono per dire, conoscono tutti i limiti di quest’affermazione, ma la lanciano egualmente. I dialoghi stanno proseguendo come un colloquio fra sordi: ciascuno tiene una posizione sgradita ad altri e l’impasse è perfetta. Dopo la notizia del taglio dei fondi Ashraf Ghani ha intrapreso il consueto piagnucolìo. Afferma che i quattro miliardi in meno priveranno – ma guarda un po’ – la promozione dell’istruzione e la difesa dei diritti umani, minando le condizioni di vita e addirittura il suo recente piano sull’anti-corruzione. Detto da lui, al vertice da sei anni, contestato all’elezione del 2014 e nuovamente in quella del 2019 per brogli, sembra una gag. Diventa un assist, servito sul piatto d’argento, alla delegazione talebana che s’è affrettata a far sapere come i fondi esteri sarebbero più sicuri se consegnati a strutture popolari o, ovviamente, a loro stessi.

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